L’articolo del Financial Times sul cibo italiano alza un polverone


Sul Financial Times dubbi sul cibo italiano: il reportage della giornalista Marianna Giusti con l’accademico Alberto Grandi ha creato un polverone mediatico

#CarbonaraDay: 5 ingredienti per un piatto perfetto

Nella prima domenica di primavera, complice forse il sonno perduto a causa del passaggio all’ora legale, in Italia è impazzata la polemica su un articolo del ‘Financial Times’ che mette in discussione le tradizioni culinarie di casa nostra. Un pezzo, quello a firma Marianna Giusti, che ha fatto saltare sulla sedia lettori comuni, associazioni come Coldiretti e politici, pronti a salire sulle barricate in difesa della cucina italiana, tra l’altro fresca di candidatura a patrimonio dell’Umanità e in una settimana già caldissima per le polemiche sulle farine di insetti. Proviamo a mettere ordine, partendo proprio dall’articolo della discordia.

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I PROTAGONISTI DELL’ARTICOLO DEL FINANCIAL TIMES

La prima notizia, che forse non farà piacere a chi ha bollato come impreciso e insulso l’articolo del quotidiano economico britannico, è che il reportage è stato scritto da una italiana, che ha intervistato un italiano per sfidare l’intoccabilità del tema. Il succo del ragionamento del lungo articolo scritto per FT Weekend è che, sono parole della giornalista Giusti, “la nostra cucina nazionale, con la sua reputazione di tradizione e autenticità, è in realtà basata su bugie”. Per farlo, Giusti si è affidata all’accademico Alberto Grandi, autore del libro ‘Denominazione di origine inventata’ (2018), da cui è nato anche un podcast di successo. Grandi, come spiegato nell’articolo del FT, ha dedicato la sua carriera a sfatare i miti del cibo italiano.

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UN ATTACCO ALLA CUCINA ITALIANA?

“Quando una comunità si sente deprivata del suo senso di identità a causa di un qualsiasi shock storico o frattura con il passato, inventa tradizioni che fungano da miti fondativi”, afferma Grandi. Nel caso italiano, questo shock sono i tempi duri della Seconda guerra mondiale dopo il Ventennio fascista. “La nazione aveva bisogno di un’identità che aiutasse a dimenticare le difficoltà passate, mentre chi era emigrato in America necessitava di miti che potessero dare dignità alle loro umili origini“, sottolinea la giornalista del Financial Times.

Ma non ci sono solo nobili sentimenti dietro questa idolatria del cibo nostrano. “Attorno al mito di un’antica tradizione culinaria, non toccata dalle moderne mode alimentari, sono cresciute intere aziende“, scrive Giusti. Che non manca di fare notare come anche la politica abbia capito il valore delle tradizioni culinarie, con alcuni partiti che ne hanno fatto un cavallo di battaglia. L’accademico Grandi non esita a parlare di “gastronazionalismo. Ma i nostri nonni sapevano che si trattava di bugie. La loro tradizione era provare a non morire di fame“.

LA CARBONARA

La contestata teoria di Grandi è che “la cucina tipica italiana è in verità più americana di quanto non sia italiana“. Ciò perché le migrazioni di massa di fine Ottocento e inizio Novecento verso gli Stati Uniti hanno prodotto profondi intrecci tra le culture gastronomiche di partenza e di arrivo. Ed ecco il primo esempio che ha fatto rabbrividire gli italiani: la pasta alla carbonara è una ricetta americana nata in Italia, viene scritto nell’articolo del FT citando lo storico del cibo Luca Cesari. Come noto, sono molte le ipotesi sull’origine di uno dei più celebri piatti della cucina romana, e per estensione italiana. Secondo Cesari, la maggioranza degli esperti è concorde nell’indicare che la prima carbonara è stata cucinata dallo chef italiano Renato Gualandi nel 1944, in una cena a Riccione per l’esercito degli Stati Uniti. “Gli americani avevano un bacon favoloso, un’ottima panna, del formaggio e tuorlo d’uovo in polvere”, sono le parole riportate dello chef.

Insomma, altro che panna vietata e ‘o guanciale o morte’. E Giusti segnala che in una ricetta della carbonara pubblicata a Chicago e risalente al 1952, si parlava di “bacon italiano” e non di “guanciale”. Ma non solo: nella rivista ‘La Cucina Italiana’ del 1954 ci sarebbe una ricetta della carbonara con groviera, e in quella del ristorante di Roma ‘Tre Scalini’ del 1958 addirittura con “prosciutto e funghi affettati e saltati“. Con il guanciale che avrebbe soppiantato il bacon solo negli anni Novanta, alla faccia della storia.

IL PARMIGIANO

Secondo esempio di una tradizione che tradizione non sarebbe: il parmigiano reggiano. Che sì, ammette Grandi, ha oltre mille anni di storia. Ma prima degli anni Sessanta, spiega l’accademico, veniva prodotto in forme da 10 kg (contro i 40 attuali) racchiuse da una crosta nera. E soprattutto aveva una consistenza molto diversa da quella che conosciamo e apprezziamo oggi: era più grasso e più morbido, tanto che “qualcuno diceva addirittura che un segno della qualità di questo formaggio era che colasse una goccia di latte quando veniva pressato”.

La ricetta originale del parmigiano reggiano l’avrebbe preservata solo il Wisconsin, grazie agli immigrati italiani dei primi anni del Novecento, afferma Grandi. Nessuna evoluzione, al contrario di quanto accaduto in Italia, ma una fedeltà rimasta totale alla ricetta originale: e quindi chi volesse conoscere la tradizione del parmigiano, dovrebbe recarsi in Wisconsin.

LA PIZZA

Ma Grandi si spinge ancora più in là, provando ad abbattere un altro monolite come la pizza. “I dischi di pasta con sopra alcuni ingredienti” esistono ovunque nella cultura mediterranea, fa notare: dalla piada alla pita, passando anche per la pizza. Che però fino a metà del secolo scorso era un alimento mangiato da pochissimi italiani, quasi sempre poveri: secondo l’accademico, i soldati italo-americani spediti nella terra dei loro avi durante la Seconda guerra mondiale si stupivano del fatto che non ci fossero pizzerie nel Belpaese, comunicandolo con disappunto nelle proprie lettere alle famiglie. E secondo Grandi, il primo ristorante a servire esclusivamente pizza non aprì in Italia, ma a New York nel 1911.

I DOLCI: DAL PANETTONE AL TIRAMISÙ

E la Dire (www.dire.it), conclude questa carrellata di attacchi provenienti dal fuoco amico con due dessert: il panettone, che secondo Grandi prima del XX secolo era “una focaccia sottile e dura farcita con un po’ di uvetta, mangiata dai poveri e senza alcun legame con il Natale”.

Dunque il panettone lievitato con la sua tipica forma a cupola che mangiamo oggi è solo una invenzione industriale, creata dall’intuizione di Angelo Motta negli anni Venti, dichiara Grandi. Che ne ha anche per il tiramisù: “In un Paese normale a nessuno importerebbe dove e quando è stato inventato un dolce“, dice sorridendo. Prima di ammettere che al ruolo di giurato nella prossima edizione del Mondiale di Tiramisù che si svolgerà a Treviso “non mancherebbe per nulla al mondo, nemmeno per una cena con il Papa”.

Perché magari non sarà fatta solo da piatti dalla tradizione storica come qualcuno vorrebbe farci credere, ma la cucina italiana resta amatissima da tutti. Anche da chi ne parla male.