Sclerosi multipla: cure personalizzate con cladribina


Sclerosi multipla: opportunità di trattamento personalizzato con cladribina compresse secondo quanto emerso al congresso SIN

Sclerosi multipla progressiva: biotina ad alto dosaggio inefficace su disabilità e deambulazione secondo i risultati di un nuovo studio

L’importanza della personalizzazione della terapia nel paziente con sclerosi multipla (SM) e le opportunità del trattamento con cladribina compresse sono state il tema di un simposio organizzato nell’ambito del 51° Congresso Nazionale della Società Italiana di Neurologia (SIN) e comoderato dal Prof. Massimo Filippi, direttore dell’Unità di Neurologia, del servizio di Neurofisiologia e dell’Unità di Neuroriabilitazione dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, e dalla Prof.ssa Maria Trojano, dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, i quali hanno lasciato la parola ai tre relatori per poi trarre alcuni key messages.

1) PERSONALIZZAZIONE E BILANCIO RISCHIO/BENEFICIO DEL TRATTAMENTO DELLA SM
1a – Il meccanismo d’azione di cladribina
«La cladribina è un derivato della purina caratterizzato da un atomo di cloro che conferisce alla molecola una resistenza alla deaminazione da parte dell’enzima adenosina deaminasi» spiega il prof. Paolo Gallo, primario di Neurologia presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova. «Il farmaco entra nella cellula tramite un trasportatore e, grazie appunto alla resistenza alla adenosina deaminasi, persiste e non viene degradato e quindi si fosforila. Proprio dal rapporto fosforilazione/defosforilazione che è molto alto nei linfociti ne deriva il meccanismo d’azione finale della molecola che consiste in un azione di morte delle cellule che si dividono in modo molto attivo per un’azione sul DNA e in un’azione di apoptosi delle cellule che non si dividono per accumulo della molecola nel mitocondri».

Sono quindi due meccanismi entrambi attivi i quali fanno sì che usando la cladribina si sopprimano soprattutto le cellule nei quali il rapporto tra fosforilazione/defosforilazione è particolarmente alto, ovvero i linfociti B e i linfociti T, spiega Gallo. «Nelle cellule somatiche, invece, dove tale rapporto è molto basso, generalmente non si osservano meccanismi di citolisi e anzi, laddove la cladribina non va in corso a meccanismi di fosforilazione, viene eliminata e quindi non si osservano danni tossici a carico di altri organi e apparati del corpo umano».

1b – Effetti sul sistema immunitario
La cladribina lascia invariato il numero dei neutrofili e dei monociti e ha un’azione molto transitoria e parziale sulle cellule Natural killer, «quindi» afferma Gallo «le cellule del sistema immunitario innato non vengono interessate dall’azione del farmaco che invece è attivo sui linfociti B, in particolare, con un’azione molto rapida e importante che si osserva nei primi due mesi con una deplezione che persiste fino al 6° mese. In seguito i linfociti B ripopolano e si ricostituiscono verso la fine dei 12 mesi dall’inizio della terapia».

Anche i linfociti T vengono soppressi, in modo meno marcato ma con un’azione più persistente. «A lungo andare, nel tempo, questo meccanismo di riduzione si riduce ma viene mantenuto un certo grado di deplezione linfocitaria che persiste per settimane fino anche a 4-5 mesi. I linfociti rientrano nel range della normalità ma generalmente per 4-5 anni si mantengono al di sotto del valore di baseline» dichiara Gallo.

1c – Il razionale d’uso nella SM
Da questo meccanismo d’azione sul sistema immunitario deriva il razionale per l’uso della cladribina nei pazienti con malattia attiva di SM, spiega Gallo. «Questo farmaco oltre a essere un immunosoppressore determina una immunoricostituzione per cui vi è una ripopolazione abbastanza rapida e fisiologica di linfociti B immaturi e naive mentre rimangono soppressi per periodi anche abbastanza lunghi i linfociti B della memoria. Un fenomeno simile si osserva anche a carico dei linfociti T dove i linfociti T della memoria vengono soppressi. In questo caso la ripopolazione con linfociti T naive è un più lenta e richiede un po’ più di tempo rispetto ai linfociti B ma in particolare possiamo dire che è l’effetto sulle cellule della memoria che è rilevante nell’uso di questo farmaco».

Questa azione di deplezione dei linfociti, precisa, non è però così grave da provocare linfopenie particolarmente marcate e gran parte dei pazienti va incontro a linfopenie di grado 0-1 dopo 12 settimane ovvero, passata l’azione acuta immediata che provoca la deplezione di linfociti B nei primi 2-3 mesi, gradualmente i linfociti ritornano a un livello tale da non esporre i pazienti a gravi dischi infettivologici e anche le linfopenie di grado 2 e 3 sono particolarmente scarse e generalmente presenti solo nei primi mesi di terapia

1d – Il basso rischio di infezioni
«I rischi infettivologici sono tipici di tutti i trattamenti di seconda linea che depletano e che sopprimono il sistema immunitario ma dai dati del real life si vede che le manifestazioni infettive sono tutte molto basse» afferma Gallo. «Indubbiamente bisogna stare molto attenti quando si fa un trattamento immunosoppressorio e bisogna essere particolarmente cauti per il rischio, per esempio, di riattivare una tubercolosi latente o lo zoster, ma questo avviene con tutti i farmaci. Infezioni severe sono l’1,2% e non sono segnalati a tutt’oggi casi di PML nei pazienti trattati con cladribina».

Circa gli eventi avversi nei trial clinici, le manifestazioni infettive più frequenti sono a carico delle vie respiratorie e quindi l’influenza e le polmoniti sono comuni perché sono le malattie infettive più comuni anche nella popolazione generale. Come si è tradotto tutto questo in periodi Covid? «A tutt’oggi casi segnalati di Covid nella cladribina non sono tantissimi, ci sono dei report e dal punto di vista della severità della malattia nessun caso è stato grave, né ha avuto bisogno di terapia intensiva o di ventilazione» risponde Gallo. Da sottolineare che i pazienti trattati con cladribina e una condizione di immunosoppressione linfocitaria che hanno sviluppato il Covid hanno sviluppato anticorpi anti-Covid: quindi l’immunosoppressione indotta dalla cladribina non era tale da compromettere una risposta immunitaria anti-SARS-CoV-2.

1e – Le cautele in caso di vaccinazioni
Con cladribina non esistono grossi problemi in fatto di vaccinazione. «Nella terapia immunosoppressoria seguite della ricostituzione le vaccinazioni si possono effettuare: basta studiare bene la tempistica. Non si tratta infatti di terapie immunosoppressorie croniche per cui abbiamo una condizione tale da rendere difficile la vaccinazione» spiega Gallo. Quindi si tratta di avere accortezza e posizionare il vaccino nel modo giusto: per esempio, non va iniziata la cladribina prima di sei settimane da una vaccinazione, soprattutto se si usano vaccini con virus vivi o attenuati, così come la negatività anticorpale va risolta a priori: un paziente che non ha un titolo anticorpale per la varicella in ogni caso deve essere vaccinato prima di iniziare la terapia. «Qualora si dovesse prendere in carico un paziente che è già in terapia con cladribina dobbiamo essere cauti e attivare le vaccinazioni nel momento in cui c’è stata la ricostituzione immunitaria» ribadisce Gallo: «per esempio, dopo il secondo ciclo si fanno passare sei settimane o anche due mesi dopo di che possiamo vaccinare il paziente anche per l’influenza o per il Coronavirus quando ci sarà il vaccino».

1f – La gestione del periodo della gravidanza
Cladribina è un farmaco gestibile anche in vista di un desiderio di maternità. Come detto, riprende Gallo, il farmaco è molto attivo nelle cellule che fosforilano e hanno un alto rapporto fra attività di fosforilazione e defosfosforilizazione. Questo non avviene nelle cellule dell’ovaio e testicolari, quindi non ci sono problemi particolari però, ovviamente, «è buona regola nel momento in cui si utilizza il farmaco e soprattutto nei primi sei mesi dopo l’ultimo ciclo di evitare di concepire. Quindi è importante mantenere una contraccezione valida in questa fase». Dopodiché, come pratica clinica dopo il secondo ciclo del secondo anno, fatti passare solo qui sei mesi di aspettativa, è possibile anche consigliare una gravidanza alle pazienti. Ricapitolando, afferma Gallio, «la gravidanza si può gestire anche nelle pazienti trattate con la cladribina: naturalmente non va assolutamente fatta nel primo e nel secondo anno se non dopo un periodo di attesa di almeno 6 mesi dopo la seconda dose».

2) EFFICACIA SOSTENUTA NEL TEMPO E RAPIDITÀ D’AZIONE

2a – Gli studi registrativi fonte di dati
«Nell’ambito dello sviluppo della cladribina, i dati che sono emersi dagli studi CLARITY e ORACLE, dallo studio osservazionale di safety PREMIER di 8 anni che ha permesso poi la registrazione e recentemente dai dati relativi allo studio CLASSIC (riguardanti pazienti – inseriti nel CLARITY, nel CLARITY EXTENSION e nell’ORACLE – seguiti per un follow-up lungo di circa 10 anni in media), offrono informazioni importanti per verificare sostanzialmente la rapidità d’azione e l’efficacia sostenuta nel tempo del farmaco». Lo ha afferma il dott. Claudio Gasperini, primario del Reparto di Neurologia dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini.
«Era già emerso nello studio registrativo CLARITY l’impatto relativamente veloce della cladribina nel ridurre il relapse state che in questo caso emergeva già entro il primo mese di inizio di trattamento. Questo risultato tendeva a persistere nel tempo e addirittura a migliorare alla fine dei due anni di osservazione dello studio pilota» aggiunge.

2b – Recenti evidenze alla RMN
«È in corso uno studio di fase IV (MAGNIFY-MS) in cui si valuta l’effetto della cladribina nel ridurre la comparsa alla RMN di lesioni attive considerate come lesioni cumulative attive (lesioni captanti gadolinio e le nuove lesioni T2-pesate)» afferma Gasperini. «I pazienti sono stati seguiti con RMN seriate per vedere la rapidità d’azione del farmaco. Il disegno dello studio è semplice: il paziente è un controllo di se stesso e i soggetti arruolati sono stati seguiti nel cosiddetto periodo di baseline, corrispondente ai tre mesi precedenti all’inizio del trattamento, e poi nel periodo post-baseline dopo l’inizio del trattamento per ulteriori sei mesi. I pazienti eseguivano una RMN al secondo mese prima dell’inizio del trattamento, la ripetevano prima dell’inizio del trattamento e poi eseguivano una RMN mensile per i primi tre mesi e un ulteriore RMN al sesto mese».

Questi i risultati. «Valutando i cambiamenti rispetto all’endpoint primario (cioè alle lesioni cumulative attive del periodo baseline verso il post-baseline) mediante una valutazione statistica considerando l’intero semestre post-baseline, dal secondo al sesto mese e dal terzo al sesto mese, si evince una differenza statisticamente significativa sia nell’intero semestre di osservazione sia – in modo ancora maggiore – considerando i periodi dal secondo al sesto mese e dal terzo al sesto mese (in relazione al meccanismo di azione del farmaco che ha la sua massima efficacia nei mesi successivi al trattamento)».

Un altro dato importante in questa analisi consiste nella valutazione del cambiamento dal periodo baseline al post-baseline delle lesioni captanti gadolinio. «Si rileva come già dal secondo mese ci sia una riduzione significativa nel numero delle lesioni captanti gadolinio nel periodo post-baseline rispetto al periodo baseline e questa differenza tende a rafforzarsi e a diventare più significativa nei mesi successivi» dichiara Gasperini. «Il dato si conferma considerando l’intero semestre nel periodo dal secondo al sesto mese più dal terzo al sesto mese, quindi con una significatività che tende ad aumentare man mano che si allunga il periodo di osservazione».

2c – Recenti analisi dal CLARITY e dall’CLARITY EXTENSION
Sempre in relazione all’efficacia sostenuta nel tempo uno studio ha valutato tutti i pazienti che sono stati inseriti nel CLARITY e nel CLARITY EXTENSION con un follow-up di circa 5 anni, valutando il cambiamento dell’EDSS distinguendo i cambiamenti annualmente. Nel grafico sotto (fig.5) le barre viola rappresentano i pazienti che sono trattati con cladribina 3.5 mg, il dosaggio utilizzato nella pratica clinica. «Si nota che nel primo anno circa il 99% dei pazienti non ha avuto cambiamenti all’EDSS e che tale cambiamento si è accentuato in maniera molto lenta: a 5 anni dall’inizio del trattamento circa il 74%-75% dei pazienti ha avuto una stabilità nell’EDSS, suggerendo come la cladribina sia in grado di far rimanere stabile il paziente per un lungo periodo di tempo» afferma Gasperini.

Lo stesso concetto è stato espresso in una Kaplan-Meyer in cui si è valutata la percentuale dei pazienti che hanno presentato un peggioramento dell’EDSS confermato a tre e a sei mesi: sia nel gruppo trattato con basso dosaggio (3.5 mg) che ad alto dosaggio (7 mg) circa il 70% dei pazienti non ha presentato un peggioramento dell’EDSS confermato a 3 e 6 mesi.

«Un altro studio, in cui si è sempre valutata la corte di pazienti inseriti nel CLARITY e nel CLARITY EXTENSIONS, ha valutato l’accumulo delle ricadute cliniche nei 5 anni di follow-up» prosegue. «I pazienti trattati con cladribina alla fine dello studio core CLARITY sono stati randomizzati per extension al placebo piuttosto che al dosaggio di 3.5 mg/kg con un bridge necessario per permettere la randomizzazione e l’acquisizione dei consensi informati. La rilevazione delle ricadute osservate in questo follow-up ha incluso anche le ricadute quelle che si presentavano durante e il bridge» afferma il neurologo. «Il numero cumulativo medio delle ricadute nei 5 anni è sostanzialmente molto basso e tende a rimanere tale per l’intero periodo di follow-up».

2d – Lo studio CLASSIC
Nello studio CLASSIC – che include i pazienti inseriti nel CLARITY e nell’ORACLE che hanno partecipato all’estensione (147 pazienti di cui 79 del CLARITY e 54 dell’ORACLE) – si è verificato l’impatto a lungo termine sulla progressione della disabilità in termini di cambiamento dell’EDSS. «I pazienti che hanno aderito allo studio sono stati screenati e poi c’è stata una rilevazione di dati retrospettiva, tramite valutazione di tutti i dati registrati durante i trial clinici, e una di tipo prospettico attraverso valutazioni neurologiche con rilevazioni dell’EDSS durante il follow up con una visita finale e una programmazione di RMN» spiega Gasperini. «Nello studio il range di osservazione varia dagli 8 ai 14 anni e vi è una media di follow-up di dieci anni che permette di avere dati a lungo termine. L’osservazione media dall’ultima dose di cladribina è stata di circa 10 anni».

Riguardo ai risultati, valutando i cambiamenti dell’EDSS rispetto all’EDSS rilevata all’inizio dello studio e alla visita di follow-up con un follow-up medio di dieci anni si nota che l’incremento dell’EDSS è stato abbastanza lieve. «Considerando un endpoint un po’ più forte – quale il raggiungimento di un EDSS7, cioè della necessità del paziente di raggiungere la sedia a rotelle, il 95% dei pazienti non ha raggiunto queste endpoint e l’84% dei pazienti non ha aggiunto l’endpoint di EDSS 6, cioè la necessità di un appoggio laterale, e il 25% di questo gruppo di pazienti lo ha raggiunto dopo 11 anni, quindi confermando ancora che non si accumula disabilità grave in un follow up di 10 anni».

Sempre in questa corte è stata fatta un’ulteriore analisi verificando la proporzione di pazienti in cui si veniva a soddisfare la definizione A (ovvero la non necessità di un ulteriore trattamento nei quattro anni successivi di follow-up dall’ultima assunzione di cladribina, definizione raggiunta dal 74% circa dei pazienti) e la definizione B (la non evidenza di attività di malattia in termini clinici sempre nei quattro anni susseguenti l’ultima dose; circa il 50% dei pazienti ha soddisfatto questa definizione) sottolineando ancora una volta il buon controllo della malattia in una percentuale alta di pazienti in un lungo follow-up.

«In un altro studio – un endpoint secondario dello studio CLASSIC – si è analizzata la percentuale dei pazienti che non aveva avuto necessità di un ulteriore trattamento in un follow up medio di 10 anni: il 63% circa dei pazienti non ha richiesto ulteriori trattamenti» spiega Gasperini, e del 36.7% dei pazienti che ha richiesto ulteriori trattamenti la maggior parte di essi – forse anche in relazione alla non possibilità di avere altri trattamenti – è stata switchata verso terapie iniettive verosimilmente anche alla possibilità di un controllo della malattia con farmaci meno aggressivi.

2e – Uno studio in Libano e uno in Australia
Uno studio monocentrico è stato condotto a Beirut dove si è avuta la possibilità di osservare una coorte relativamente grande (34 pazienti) con caratteristiche sono lievemente diverse rispetto a quelle finora descritte, spiega Gasperini: pazienti giovani, con pochi trattamenti effettuati in precedenza (quindi naive) e con un EDSS relativamente bassa. Di questi 34 pazienti, con un follow-up di otto anni, il 50% non ha avuto bisogno di ulteriori trattamenti e nell’altro 50% la gran parte dei pazienti è switchata verso terapie di prima linea; soltanto sette pazienti hanno avuto poi necessità di switchare a terapie di seconda linea.
«Di rilievo la coorte australiana (paese che ha avuto la possibilità di registrare la cladribina e quindi di fare un’esperienza su un numero relativamente alto di pazienti) che presenta i dati relativi a 90 pazienti con caratteristiche specifiche: sono pazienti in cui il 77% ha forme relapsing remitting ma il 23% presenta forme progressive. Erano inoltre pazienti con EDSS media al baseline relativamente alta (5). Da notare come il 6)30% di questi pazienti in questo follow-up non ha avuto necessità sostanzialmente di ulteriori trattamenti mentre gli altri sono switchati verso terapie di seconda linea.

3) LEARNING DAL REAL WORLD

Il prof. Carlo Pozzilli, dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma, esordisce ricordando come già nel 2011 aveva organizzato un simposio a Roma evidenziando che cladribrina si era dimostrata molto efficace nel ridurre sia l’infiammazione alla RMN sia le ricadute cliniche. «Dal 2018 il farmaco è in commercio» precisa Pozzilli. Dopo questa premessa, Pozzilli passa agli studi più attuali ottenuti nell’esperienza clinica real world negli ultimi due anni.

3a – Un confronto multicentrico italiano
Pozzilli presenta uno studio randomizzato di vita reale ma ottenuto in numerosi centri italiani in un periodo in cui il farmaco veniva dato ai pazienti nell’ambito della fase registrativa. Lo scopo era fare un confronto tra l’efficacia di cladribina rispetto a quella di altri farmaci in uso. «Il confronto è di tipo indiretto» spiega «cioè si valuta come termine di paragone il placebo dello studio CLARITY e poi si confronta quanto rispetto a questo placebo la cladribina ha un effetto o se questo effetto è diverso/superiore/inferiore rispetto ad altri farmaci.

«Si tratta di uno studio retrospettivo con un dataset che include circa 3.000 pazienti con SM remittente recidivante» precisa. «I dati dimostrano che se si prendono come endpoint le ricadute la cladribina è più efficace rispetto all’interferone, al glatiramer e al dimetil fumarato (DMF) nella ridurre le ricadute mentre rispetto al fingolimod non c’è una differenza significativa mentre è inferiore – come atteso – al natalizumab. Le stesse evidenze si rilevano anche in un sottogruppo di pazienti con alta attività di malattia, aggiunge Pozzilli.

«Per i dati di confronto sulla disabilità» rileva «è difficile raggiungere la significatività sia perché il follow-up è piuttosto breve per alcuni farmaci mentre per altri è più lungo – quindi ci sono differenze nella durata del trattamento – sia perché il campione per questo tipo di confronto sulla disabilità è inferiore».

3b- Studi condotti in Europa
In uno studio condotto in almeno 5 stati europei (“Five European Countries”) sono inclusi in tutto 182 pazienti che sono stati seguiti da quando la cladribina è entrata nel mercato. «È interessante notare come almeno il 35% dei pazienti erano naive mentre un 205% circa veniva da altri farmaci» afferma Pozzilli. «La ragione per cui questi pazienti erano shiftati a cladribina nella maggior parte casi era un’inefficacia delle molecole precedenti (31%),  ma anche per prevenire la formazione di nuove lesioni (15,9%)».

Pozzilli cita poi un’esperienza condotta in Inghilterra (“The NHNN Cladribine Tablets experience) su 100 pazienti tipici con malattia remittente e follow-up piuttosto breve: tutti i pazienti hanno completato il primo anno e 72 pazienti anche il secondo. Riguardo una linfopenia si è avuto un caso di <800 cellule/uL relativo a un solo un paziente e soltanto due pazienti in due anni avevano dismesso la terapia. «Prima di vedere l’effetto di cladribina sulle ricadute» precisa Pozzilli «occorre vedere come queste erano precedentemente al trattamento: la maggior parte dei pazienti era molto attivo, 49 avevano almeno due ricadute ma 13 anche 3 ricadute e anche l’EDSS media era sui 2,5-3. I pazienti provenivano da farmaci iniettivi nel 40%, molti anche da uno shift da altri farmaci orali, nel 50%. La tollerabilità di questo farmaco è stata ottima mentre riguardo la sicurezza va segnalata solo una linfopenia di grado 3, importante, che si manifestava intorno al 25% dei casi. Importanti sono i dati di efficacia, con una riduzione rispetto al baseline del tasso di ricadute» sottolinea.

3c- Valutazione NEDA
«Vi è un altro studio italiano sempre di real world al quale hanno partecipato più centri per un totale di 236 pazienti di cui 22% naive, 43% che switchano dalla prima linea e il18% che switchano dalla seconda linea» riprende Pozzilli. «Sono dati molto importanti che dimostrano come durante il primo anno di follow-up si abbia un’efficacia della terapia in termini di NEDA molto elevata nei pazienti naive, efficacia che tende a diminuire prendendo in considerazione pazienti che hanno già subito un trattamento e ancora meno osservando pazienti che hanno già fatto due trattamenti. Quindi questi dati impongono di pensare la necessità di iniziare un trattamento con cladribina precocemente perché nel paziente naive l’efficacia è sicuramente maggiore».

Rispetto all’anno precedente si nota una riduzione altamente significativa delle ricadute. Anche il tempo alla ricaduta si comporta in maniera in modo simile a come mostrato prima e cioè quei pazienti che sono naive sono quelli che hanno una maggior efficacia rispetto ai pazienti che hanno già usato due farmaci in precedenza. Per l’EDSS in un periodo così breve non ci si possono aspettare differenze significative e per quanto riguarda la linfopenia – in un campione piuttosto numeroso – solo il 6,3% presenta linfopenia di grado 3. «Sono riportati effetti collaterali, tipici dei trattamenti immunomodulanti e immunosoppressivi – come l’aumento delle infezioni urinarie, visto in 3 casi – ma sono 15 in tutto, una percentuale comunque abbastanza bassa» sottolinea Pozzilli.

3d – L’esperienza del Sant’Andrea di Roma
«Riguardo all’esperienza al nostro Centro del Sant’Andrea (un’analisi retrospettiva di 63 pazienti) la popolazione è stata divisa in due gruppi: un gruppo 1 che si riferisce a un numero totale di 20 pazienti seguiti ormai da più di 9 anni perché erano stati inseriti negli studi registrativi del CLARITY e dell’ORACLE e poi l’esperienza più recente di 43 pazienti che sono stati seguiti da quando il farmaco è in commercio» spiega Pozzilli. «La maggior parte di questi pazienti proveniva da DMF e interferone, qualcuno anche dal fingolimod, e nella nostra casistica vi sono pazienti naive in cui quindi la cladribina è il primo trattamento ma nella fase post-marketing ben 24 pazienti hanno già eseguito due trattamenti prima di iniziare la cladribina» afferma.

«Per quanto riguarda la sicurezza non ci sono stati problemi in termini di tumori o seri eventi avversi e neppure casi di linfopenia. Le pazienti andate incontro a gravidanza non hanno avuto problemi per quanto riguarda effetti avversi sul feto» precisa. Nel gruppo 2 – real world con follow up di 13 mesi, quindi piuttosto breve – il 93% dei pazienti non ha avuto ricadute e l’82% non ha mostrato attività alla RMN. «Nel gruppo 1 – con nove anni di follow-up – nei pazienti naive il 95% non aveva ricadute mentre queste vi erano nell’85% di quelli che avevano utilizzato due o più farmaci» rileva Pozzilli.

«Un dato molto rilevante, aggiunge, è che il 50% dei pazienti non aveva attività alla RMN. I dati sulla disabilità nel follow-up sempre nei pazienti di gruppo 1 mostrano che la disabilità si mantiene piuttosto costante. Inoltre, il 95% dei pazienti naive non mostra disabilità a 9 anni mentre questo dato nel gruppo dei pazienti che avevano già fatto altri trattamenti si riduce al 50%. La conclusione più importante è che anche questo studio dimostra che se si inizia precocemente il trattamento in pazienti naive o al massimo con un solo shift l’efficacia del farmaco è maggiore» conclude Pozzilli.

KEY MESSAGES
• In un’alta proporzione di pazienti la cladribina mostra una durevole efficacia sia in termini clinici che di RMN.
• La cladribina sembra avere un esordio di azione di efficacia molto veloce e che già appare al secondo mese dall’inizio del trattamento.
• La cladribina ha un buon profilo di sicurezza e tollerabilità
• I pazienti naive sono i candidati giusti per iniziare terapie, come cladribina, a più alto impatto di efficacia