Colangite biliare primitiva: nuove linee guida


Colangite biliare primitiva, pubblicate le nuove linee guida inglesi: dalla diagnosi alla terapia, tutte le ultime indicazioni per la gestione dei pazienti affetti da questa malattia epatica

tumore del fegato

La colangite biliare primitiva (CBP) è una malattia epatica colestatica, cronica e autoimmune, che colpisce circa 20.000 persone in Italia. Sebbene il decorso clinico sia nella maggior parte dei casi lentamente progressivo, alcuni sottogruppi di pazienti possono andare incontro a una malattia epatica allo stadio terminale che richiede un trapianto di fegato. Per decenni, l’acido ursodesossicolico (UDCA) è stata l’unica terapia disponibile: oggi, invece, l’approvazione dell’acido obeticolico (OCA) come terapia di seconda linea per i pazienti con risposta inadeguata all’UDCA ha cambiato sostanzialmente il panorama del trattamento.

Ora, nuove linee guida sono state elaborate dalla British Society of Gastroenterology in collaborazione con la UK-PBC, un organismo che riunisce medici, pazienti e aziende. Jorn C. Goet, dell’Erasmus University Medical Center di Rotterdam, e Gideon M. Hirschfield, dell’Università di Toronto, hanno riassunto e commentato queste indicazioni sulla rivista Frontline Gastroenterology.

La corretta diagnosi di CBP si pone in pazienti con un aumento ripetuto, per più di 6 mesi, della fosfatasi alcalina (ALP), in combinazione con la presenza di anticorpi antimitocondriali o anticorpi anti-nucleo altamente specifici per la CBP. In assenza di questi autoanticorpi, o per chiarire la diagnosi quando c’è un sospetto clinico di coesistente epatopatia, è indicata la biopsia epatica. L’imaging dovrebbe essere usato per escludere diagnosi alternative, come le malattie biliari e infiltrative. Nella maggior parte dei casi, l’ecografia addominale è sufficiente. Nei pazienti sieronegativi – consigliano le linee guida inglesi – la colangiopancreatografia a risonanza magnetica è necessaria per escludere la colangite sclerosante primitiva (CSP), mentre la risonanza magnetica è in genere normale nei pazienti con CBP e di solito non è necessaria. Per la gestione dei pazienti è fondamentale un follow-up strutturato per tutta la vita, che riconosca la variabilità nel decorso della malattia.

Dopo la diagnosi di CBP, a tutti i pazienti deve essere offerto un trattamento a base di UDCA a 13-15 mg/kg al giorno, per tutta la vita. Al basale, i fattori di rischio per la progressione della malattia sono lo stadio avanzato, l’età più giovane alla presentazione e il sesso maschile: lo stadio della malattia deve essere valutato utilizzando strumenti non invasivi e deve essere monitorato durante il follow-up. Un aspetto importante del trattamento è la gestione attiva dei sintomi, in particolare prurito, secchezza delle fauci, degli occhi e delle zone intime (sicca complex), artralgia e affaticamento. Questi sintomi, sebbene non associati in modo lineare alla progressione della malattia, possono avere un impatto significativo sulla qualità di vita e i medici dovrebbero informarsi in modo specifico sugli effetti che hanno sul paziente.

La valutazione del rischio durante il trattamento deve essere eseguita in tutti i pazienti entro 1 anno dalla terapia con UDCA, utilizzando uno strumento di stratificazione del rischio biochimico con il quale il medico abbia familiarità. L’approccio più semplice si concentra sui valori di fosfatasi alcalina e bilirubina, poiché questi sono marcatori validati della progressione della malattia. È chiaro che esistono molti criteri ampiamente validati e diversi modelli per la valutazione di una risposta inadeguata, ma non ci sono prove sufficienti per raccomandare l’uno o l’altro sulla base di dati diretti. Le linee guida del Regno Unito hanno proposto l’uso dei cosiddetti criteri “Toronto” per la risposta biochimica (valore della fosfatasi alcalina più di 1,67 volte il limite superiore della norma e/o bilirubina totale anormale), dal momento che sono stati i criteri utilizzati negli studi controllati randomizzati sulla terapia di seconda linea. I pazienti con una risposta inadeguata all’UDCA dovrebbero quindi essere considerati per la terapia di seconda linea.

L’acido obeticolico (OCA) è l’unico agente attualmente autorizzato per i pazienti intolleranti o con una risposta insufficiente all’acido ursodesossicolico (UDCA), a partire da una dose iniziale di 5 mg al giorno e con un aumento del dosaggio fino a 10 mg al giorno dopo 6 mesi, se tollerato. Gli effetti dell’OCA sono stati valutati nello studio di Fase III POISE, in doppio cieco e controllato con placebo, della durata di 12 mesi, in cui 217 pazienti con CBP che avevano una risposta inadeguata all’UDCA sono stati assegnati in modo casuale a UDCA + OCA alla dose di 10 mg, a OCA alla dose di 5 mg con aumento a 10 mg se tollerato, oppure a placebo. In questo studio, la terapia con OCA ha avuto effetti positivi (misurati sulla base di importanti indicatori surrogati della progressione di malattia) in una percentuale significativa di pazienti, con circa il 46% di loro che ha raggiunto l’endpoint primario della sperimentazione (livello della fosfatasi alcalina minore di 1,67 volte il limite superiore della norma, con una riduzione di almeno il 15% dal basale e bilirubina normale).

La terapia off-label con bezafibrato è stata recentemente valutata in uno studio randomizzato e controllato. Questo studio ha mostrato che una parte consistente dei pazienti non responsivi dell’UDCA presenta un miglioramento dei parametri biochimici dopo due anni di terapia aggiuntiva con bezafibrato, ma con un rischio di epatotossicità. L’uso di questo farmaco come opzione terapeutica di seconda linea nei pazienti non responsivi all’UDCA (simile quindi all’uso dell’OCA) è ancora in attesa di un’autorizzazione ufficiale.

Rimane aperta una questione: quanto spesso si dovrebbe rivalutare il rischio nei pazienti con CBP? Non esiste un intervallo basato sull’evidenza, ma le linee guida raccomandano test sierici epatici annuali e una valutazione del rischio ripetuta ogni 3 anni. La CBP è una malattia permanente, con una storia naturale lenta e una necessità di monitoraggio a lungo termine. È inoltre importante considerare che il tasso di progressione verso la cirrosi è fortemente legato allo stadio della malattia al basale.

Storicamente, il 17% dei pazienti con stadio di fibrosi 1 al basale e il 76% con stadio 3 svilupperà una cirrosi entro 10 anni di follow-up. Poiché la biopsia non è una pratica di routine, la valutazione dello stadio della malattia al basale e il monitoraggio successivo sono importanti e dovrebbero essere eseguiti usando, oltre agli esami del sangue di routine, misure non invasive come gli ultrasuoni, l’elastografia transitoria e i marcatori sierici di fibrosi (come il test della fibrosi epatica potenziato).

I pazienti con malattia lieve e normali test epatici sierici durante il trattamento necessitano solo di una valutazione annuale di routineQuelli con malattia avanzata alla presentazione, o che sono stati considerati ad alto rischio a causa di una risposta inadeguata all’UDCA, dovrebbero, invece, essere considerati prioritari e monitorati per la progressione della fibrosi epatica in base alle risorse disponibili localmente. L’identificazione clinica della cirrosi è importante per garantire che i pazienti ricevano un adeguato monitoraggio per il carcinoma epatocellulare, le varici e il tempestivo ricorso al trapianto.

Per i pazienti non responsivi all’UDCA, quelli con fibrosi o cirrosi epatica avanzata, caratteristiche di ipertensione portale o sintomi complessi, rimangono indicate le cure dell’ospedale. Allo stesso modo, il rinvio ai centri specializzati è ragionevole per la gestione di pazienti non responsivi all’UDCA più giovani e ad alto rischio, e di pazienti che possono richiedere un trapianto di fegato, che sviluppano carcinoma epatocellulare o che hanno sintomi non trattabili.

Tutti i pazienti, infine, possono trarre vantaggio dai gruppi di sostegno: in Italia è attiva l’associazione AMAF Monza Onlus, punto di riferimento per la colangite biliare primitiva e per le altre malattie autoimmuni del fegato.