L’associazione tra attività fisica e declino cognitivo è da tempo oggetto di studio, ma rimangono aperti interrogativi cruciali sui periodi della vita in cui il movimento produce il massimo effetto protettivo
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L’associazione tra attività fisica e declino cognitivo è da tempo oggetto di studio, ma rimangono aperti interrogativi cruciali sui periodi della vita in cui il movimento produce il massimo effetto protettivo. Una nuova analisi prospettica del Framingham Heart Study Offspring, pubblicata su JAMA Network Open, chiarisce questo punto identificando due finestre temporali particolarmente sensibili: la mezza età e la tarda età. Lo studio, di ampia durata e con un follow-up fino a quasi quattro decenni, offre una visione più precisa dell’effetto dell’attività fisica sul rischio di demenza, distinguendo inoltre l’impatto in relazione allo stato genetico APOE4.
Disegno dello studio e popolazione
L’analisi ha coinvolto 4.354 partecipanti inizialmente privi di demenza. L’attività fisica è stata valutata attraverso un indice composito derivato da un questionario validato che quantifica ore dedicate a sonno, sedentarietà, attività leggere, moderate e pesanti. I ricercatori hanno suddiviso la valutazione in tre fasi: giovane età adulta (26-44 anni), mezza età (45-64 anni) e tarda età (65-88 anni). La durata media del follow-up è stata rispettivamente di 37,2 anni, 25,9 anni e 14,5 anni.
Nel corso dello studio sono stati identificati 567 casi incidenti di demenza, distribuiti in modo crescente con l’aumentare dell’età dei gruppi di partenza. L’impianto metodologico ha previsto l’uso di modelli di Cox aggiustati per fattori demografici, clinici e comportamentali.
Risultati chiave
L’attività fisica in giovane età adulta non ha mostrato associazioni significative con il rischio di demenza. Il quadro cambia, invece, in modo marcato nelle fasi successive. Nella mezza età, i partecipanti nei due quintili più elevati di attività fisica mostravano una riduzione del rischio di demenza di circa il 40% nei 26 anni seguenti. È un risultato che suggerisce come la plasticità cerebrale e la resilienza neurovascolare siano particolarmente influenzabili in questa fase di vita.
Un’associazione simile è stata osservata anche nella tarda età, con riduzioni del rischio comprese tra il 36% e il 45% nei 15 anni successivi. Sebbene il potenziale rischio di causazione inversa sia più elevato in questo gruppo — considerando che un declino cognitivo prodromico potrebbe ridurre i livelli di attività — la lunga durata del follow-up e l’esclusione dei casi prevalenti rafforzano l’affidabilità delle conclusioni.
Interazione con lo stato APOE4
Uno degli aspetti più innovativi della pubblicazione riguarda l’analisi stratificata per APOE4. Nella mezza età, la protezione offerta da livelli elevati di attività fisica è stata osservata solo nei non portatori dell’allele APOE4, evidenziando un’interazione significativa tra predisposizione genetica e ruolo del movimento. Nella tarda età, invece, l’associazione protettiva rimaneva significativa sia nei portatori sia nei non portatori.
Questa divergenza temporale suggerisce che l’attività fisica possa attenuare alcuni processi patogenetici legati all’APOE4 solo quando questi sono già attivi o strutturalmente più evidenti. Gli autori ipotizzano che, nelle fasi tardive, i meccanismi biologici attivati dall’esercizio — in particolare neuroplasticità compensatoria, perfusione cerebrale migliorata e riduzione dello stato infiammatorio — possano contribuire a contrastare parte del rischio determinato dal genotipo.
Potenziali meccanismi biologici
La letteratura suggerisce un insieme complesso e multilivello di pathway attraverso cui l’attività fisica esercita un effetto neuroprotettivo, con effetti che coinvolgono la sfera vascolare, metabolica, immunitaria e sinaptica.
Uno dei meccanismi più consolidati riguarda il miglioramento della perfusione cerebrale. L’esercizio aerobico induce vasodilatazione, aumenta la reattività delle arteriole cerebrali e favorisce un incremento del flusso ematico regionale, migliorando l’apporto di ossigeno e nutrienti ai tessuti corticali e ippocampali. Questo effetto è supportato da studi di neuroimaging che mostrano un miglioramento della perfusione basale e una maggiore capacità di vasorilassamento endotelio-dipendente nei soggetti fisicamente attivi. L’attività fisica sembra inoltre migliorare la funzione endoteliale attraverso un incremento della biodisponibilità di ossido nitrico (NO), che svolge un ruolo cruciale nel mantenimento dell’omeostasi vascolare.
Un secondo pilastro riguarda la modulazione dell’infiammazione sistemica e neuroinfiammatoria. L’esercizio regolare riduce la concentrazione circolante di citochine pro-infiammatorie come IL-6, TNF-α e CRP, e favorisce la produzione di mediatori anti-infiammatori. A livello cerebrale, alcuni studi indicano un impatto positivo sul fenotipo microgliale, con una riduzione della microglia pro-infiammatoria (M1) e un aumento della microglia di tipo riparativo (M2). Questa transizione è considerata essenziale per rallentare l’accumulo di proteine patologiche come β-amiloide e tau fosforilata, mitigate anche da un miglioramento delle vie di degradazione proteica e del drenaggio linfatico cerebrale (sistema glinfatico).
La neuroplasticità rappresenta probabilmente il meccanismo più caratteristico e documentato. L’attività fisica incrementa l’espressione di fattori neurotrofici come BDNF, GDNF e IGF-1, modulando criticamente la sopravvivenza neuronale, la proliferazione delle cellule staminali neurali e la formazione di nuove connessioni sinaptiche, soprattutto nell’ippocampo, regione chiave per la memoria episodica. Numerosi modelli murini mostrano che l’esercizio aumenta la densità dendritica, stimola la neurogenesi nell’ippocampo e migliora la plasticità a lungo termine (LTP), un correlato cellulare dell’apprendimento.
Accanto a questi potenziali pathway, le evidenze precliniche e cliniche suggeriscono un impatto favorevole anche sul metabolismo energetico cerebrale. L’esercizio migliora l’efficienza mitocondriale, riduce la produzione di specie reattive dell’ossigeno e favorisce un miglior utilizzo del glucosio da parte dei neuroni, tutti elementi che contribuiscono a mantenere l’integrità sinaptica. Non meno rilevante è il ruolo della regolazione metabolica periferica: l’attività fisica migliora la sensibilità insulinica e riduce la resistenza all’insulina, un fattore emergente nella patogenesi della malattia di Alzheimer.
Infine, studi osservazionali e analisi genetiche recenti — inclusi i lavori su coorti come UK Biobank — indicano che elevati livelli di fitness cardiorespiratorio possono attenuare parzialmente il rischio conferito da varianti genetiche ad alto impatto, come APOE4. Questo effetto potrebbe riflettere una maggiore resilienza cerebrale, determinata dall’integrazione sinergica dei meccanismi sopra descritti.
Limiti e considerazioni metodologiche
Tra i limiti principali, gli autori segnalano la natura autoriportata dell’attività fisica, suscettibile di bias di classificazione. I tassi di mortalità più elevati tra soggetti meno attivi possono aver influenzato le stime, introducendo potenziali effetti di selezione. Anche il rischio di reverse causation nella tarda età rimane un elemento da considerare. Tuttavia, la solidità del disegno longitudinale e la durata eccezionalmente ampia del follow-up rafforzano la validità generale delle conclusioni.
Implicazioni cliniche e di sanità pubblica
Lo studio contribuisce in modo significativo al dibattito sull’identificazione dei fattori modificabili per la prevenzione della demenza. La possibilità di intervenire in due fasi fondamentali della vita offre un’opportunità concreta per strategie preventive mirate, soprattutto in popolazioni con elevato rischio genetico o con comorbidità cardiovascolari. Per la medicina clinica e per l’industria farmaceutica, i risultati suggeriscono che gli interventi comportamentali potrebbero inserirsi efficacemente in programmi integrati di prevenzione, accanto alle terapie farmacologiche emergenti.
Referenza bibliografica
Marino FR, et al. «Physical activity over the adult life course and risk of dementia in the Framingham Heart Study». JAMA Network Open. 2025; DOI: 10.1001/jamanetworkopen.2025.44439.