Scoperto un legame tra cibi ultraprocessati e sclerosi multipla


Sclerosi multipla: ricercatori hanno scoperto che un aumento del consumo di cibi ultraprocessati (UPF) era associato a ricadute più frequenti e a una maggiore attività lesionale

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I ricercatori hanno scoperto che un aumento del consumo di cibi ultraprocessati (UPF) era associato a ricadute più frequenti e a una maggiore attività lesionale rilevata alla risonanza magnetica, evidenziando il potenziale ruolo della dieta come strategia complementare nella gestione della malattia.

Lo studio, guidato dalla dottoressa Gloria Dalla Costa, ha analizzato i dati di 451 pazienti con sindrome clinicamente isolata (CIS) – la prima manifestazione clinica della SM – arruolati nello studio BENEFIT e seguiti fino a cinque anni. È stata applicata ai campioni plasmatici basali una firma metabolomica già validata dell’assunzione di UPF, sviluppata da ricercatori di Harvard e basata su 39 metaboliti plasmatici, per calcolare i punteggi individuali di consumo di UPF.

Sebbene i punteggi di UPF non fossero associati alla conversione verso una SM clinicamente definita, punteggi più alti al basale erano collegati a un maggiore volume di lesioni ipointense in T1 – indice di danno tissutale più severo – e a punteggi più bassi di funzionalità neurologica.

Nel corso dei cinque anni di follow-up, i partecipanti con punteggi nel quartile più alto di consumo di UPF hanno avuto circa il 30% di ricadute in più rispetto a quelli nel quartile più basso. Dopo due anni, hanno inoltre mostrato un tasso maggiore di nuove lesioni attive, segno di infiammazione persistente, e un incremento più marcato del volume delle lesioni T2, indicativo di un accumulo progressivo di alterazioni tissutali.

Queste associazioni sono rimaste significative anche dopo aggiustamenti per età, sesso, trattamento, carico di malattia al basale, BMI, livelli di vitamina D e fumo.

«Questo pattern suggerisce che i cibi ultraprocessati agiscano come un acceleratore infiammatorio cronico, piuttosto che come un fattore scatenante della malattia, amplificando i processi infiammatori già in corso nella SM invece di determinare se una persona svilupperà o meno la patologia», ha spiegato la dottoressa Dalla Costa.

«I meccanismi biologici alla base di questo effetto potrebbero coinvolgere la disfunzione della barriera intestinale indotta da additivi come emulsionanti e conservanti, che permettono alle endotossine batteriche di entrare nel flusso sanguigno e di attivare il sistema immunitario, con conseguenze che raggiungono Il «cervello», ha spiegato. «Livelli elevati di ceramidi e lipidi modificati suggeriscono che il consumo di UPF possa anche alterare la composizione delle membrane cellulari, rendendo la mielina – lo strato isolante che avvolge i nervi – e le cellule che la producono più vulnerabili all’attacco autoimmune».

«Inoltre, le firme di stress metabolico, come l’aumento della carnitina C4-OH, indicano una produzione energetica cellulare compromessa, limitando la capacità del cervello di resistere e riparare i danni durante gli episodi infiammatori. Nel complesso, i nostri risultati suggeriscono che il consumo di UPF inneschi una cascata di alterazioni biologiche che amplificano l’attività infiammatoria della SM».

Discutendo le implicazioni cliniche dei risultati, la dottoressa Dalla Costa ha dichiarato: «Consiglierei la riduzione degli UPF come strategia di supporto preziosa nella gestione precoce della SM. Analogamente all’integrazione di vitamina D o al consiglio di smettere di fumare, non si tratta di sostituire le terapie consolidate, ma di complementarle. È un intervento a basso rischio e con un potenziale beneficio elevato».

Guardando al futuro, il team prevede di replicare questi risultati in altre coorti di SM, integrare analisi sul microbioma e progettare studi di intervento. «Stiamo finalizzando un manoscritto completo che fornirà le basi di evidenza necessarie per informare le linee guida cliniche e gettare le fondamenta per futuri studi di intervento dietetico», ha concluso la dottoressa.

Conclusioni
Questi dati portano alla luce un elemento sempre più centrale nella ricerca sulla sclerosi multipla: il ruolo dello stile di vita come modulatore dell’attività di malattia. Il consumo di cibi ultraprocessati non sembra essere un fattore che determina da solo l’insorgenza della SM, ma agisce da “moltiplicatore di rischio”, amplificando i processi infiammatori e neurodegenerativi già in corso.

La possibilità che una semplice modifica della dieta – ridurre l’assunzione di UPF – possa contribuire a rallentare la progressione della malattia, si affianca ad altre raccomandazioni preventive consolidate, come l’adeguata esposizione alla vitamina D o la cessazione del fumo.

Se confermati da studi di intervento prospettici e integrati con l’analisi del microbioma, questi risultati potrebbero tradursi in nuove linee guida cliniche che integrino la nutrizione nel percorso terapeutico standard. Per i pazienti con forme precoci di SM, rappresenterebbe un’opportunità concreta di agire direttamente, con un intervento a basso costo e potenzialmente ad alto impatto, sulla traiettoria a lungo termine della malattia.

Bibliografia:
Dalla Costa G. Association of Ultra-Processed Food Intake with Increased MS Disease Activity: Findings from the BENEFIT Trial. Presented at ECTRIMS 2025, Barcelona, Spain.