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Chi pensa che in Italia il benessere sia sempre stato un privilegio dei ricchi, non ha mai guardato con attenzione alla nostra tavola. In realtà, qui da noi, anche chi non aveva grandi mezzi riusciva a mangiare in modo sano, equilibrato, persino gustoso. Un patrimonio che ancora oggi si intreccia con la modernità, proprio come una mano di carte giocate con maestria – e non a caso, parlando di fortuna, potremmo citare anche Spinando, quasi fosse un richiamo ironico alla sorte che, in cucina, ci è stata benevola.
Pane, olio e intelligenza contadina
Un pezzo di pane raffermo strofinato con pomodoro e condito con un filo d’olio extravergine. Chiunque sia cresciuto in un borgo del Sud, o in una cascina del Nord, conosce questa scena. Era un pasto “povero”, ma ricco di sostanze preziose, più equilibrato di molti panini imbottiti delle catene di fast food di oggi. La dieta mediterranea, riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità, nasce proprio da qui: dall’ equilibrio fra ciò che la terra offriva e ciò che il corpo chiedeva.
Il cibo come linguaggio comune
La cosa straordinaria è che questa cura del mangiare bene non apparteneva solo ai contadini. Anche nelle case aristocratiche o borghesi, i piatti, pur più elaborati e scenografici, partivano dalle stesse basi: cereali, verdure, olio, legumi, vino. Cambiava la quantità, lo stile della preparazione, la raffinatezza del servizio. Ma la sostanza restava simile.
In altre società, la differenza tra le tavole dei ricchi e quelle dei poveri era abissale: carne quotidiana per i primi, calorie vuote per i secondi. In Italia, invece, il filo conduttore era la stagionalità e la freschezza degli ingredienti. Un linguaggio condiviso che univa nobili e popolani, chef e massaie, creando una sorta di identità collettiva che ancora oggi ci rappresenta.
Quando mangiare povero diventa un lusso
Oggi, paradossalmente, quei piatti “poveri” sono diventati un lusso. Nei ristoranti di alta cucina si riscoprono ricette nate per necessità: la ribollita toscana, la pasta e ceci romana, la caponata siciliana. Piatti che costano pochi euro se cucinati in casa, ma che nei menù stellati si trasformano in piccole opere d’arte da gustare sotto i riflettori.
Eppure, dietro questa trasformazione non c’è solo una moda. C’è il riconoscimento di un valore culturale e salutistico che non ha eguali. Un piatto di legumi, con il suo apporto di proteine vegetali, fibre e vitamine, vale più di mille integratori.
Il confronto con l’estero
Se ci spostiamo oltreoceano, la differenza balza subito agli occhi. Negli Stati Uniti, la cosiddetta “food insecurity” colpisce milioni di famiglie: chi è povero spesso compra cibi ipercalorici e poco nutrienti, perché costano meno.
In molte zone dell’Asia, il modello è simile: prodotti industriali a basso costo invadono le tavole, soppiantando tradizioni culinarie più antiche e salutari. Laddove il cibo povero significava riso, verdure o pesce fresco, oggi significa noodle istantanei e snack confezionati.
In Italia, questo slittamento non si è mai verificato in modo massiccio. Certo, anche qui i supermercati offrono scaffali di prodotti industriali, ma la coscienza collettiva sul “mangiare bene” ha radici troppo profonde per sradicarsi facilmente.
L’eredità che ci salva
Non è un caso che l’aspettativa di vita degli italiani sia fra le più alte d’Europa, e che gli studiosi continuino a indicare la nostra dieta come modello virtuoso. Non è solo merito della genetica o del clima. È soprattutto frutto di un’abitudine quotidiana che ha insegnato a generazioni intere a riconoscere il valore di un piatto semplice, a dare importanza a ciò che si mette nel piatto, a rispettare i ritmi della natura.
E forse, alla fine, è questo il nostro vero tesoro: non l’oro delle corti rinascimentali o le grandi ricchezze industriali, ma la capacità di trasformare un pezzo di pane e un filo d’olio in simbolo di salute, identità e dignità.