In libreria il primo romanzo di Giampietro De Angelis: “Il Silenzio degli Invisibili”, a cura della Mauna Loa Edizioni, è un libro autobiografico
Tratteggiando, con un testo intimistico ed esistenzialista, la propria vita, De Angelis persegue una esplorazione narrativa fondata sulla memoria e, al contempo, sulla continua ricerca di significato. Come tutti coloro che si sentono “invisibili” o, forse, scelgono di esserlo. Come coloro che, nell’arco di pochi decenni, hanno visto cambiamenti epocali nel mondo che li circonda e nei valori umani. Afferma De Angelis: “Quanti di noi si sentono invisibili al mondo? Credo che nel mio libro prevalga la necessità di ritrovare un proprio filo di Arianna, pacificando antiche tensioni e quel bisogno tutto umano di comunicare al lettore, persona che viene sempre immaginata interattiva, un comune sentire, un percorso di ricerca”.
Ecco un estratto del libro:
Dallo scoglio il mare assume una prospettiva diversa. La spiaggia sfila nella sua lunghezza, mentre l’acqua spumeggia senza fretta, penetrando nell’arenile. Dopo aver camminato a lungo sulla sabbia, osservando l’osservabile e l’immaginabile, pensando e divagando, mi sono seduto proprio lì, sul grande masso che avevo intravisto da lontano e che mi aveva incuriosito per la sua forma insolita, quasi a ricordare un levriero nel suo riposo. È uno di quei momenti che hanno il dono dell’unicità e che, per gli insondabili giochi della mente, sembrano quasi epici nella loro essenzialità, in una sorta di fermo immagine cinematografico: ho un libro in mano, il sole sul viso, la sensazione d’un leggerissimo garbino che mi porta, di tanto in tanto, a sollevare gli occhi.
A nord, dietro una timida foschia romanticamente alta, c’è la sagoma austera del rilievo del Conero che, nonostante non arrivi ai 600 metri di altezza, ha un bell’impatto sul panorama, con il suo rapido degradare nella riviera sottostante. A ovest, il gioco carducciano delle onde collinari. Si rincorrono, sfumano, si ritrovano e infine si perdono a ridosso del massiccio dei monti Sibillini, come a scusarsi d’averne intralciato il percorso. Non sanno, le colline, che con le loro rocche e i borghi medievali molto han dato all’immagine di quei monti, alle loro leggende, alla storia del tempo, all’orgoglio dei nonni. Al piacere degli artisti e degli ultimi artigiani.
Metto giù il libro. Sono tornato alla narrativa contemporanea e la lettura è piacevole, sorprendentemente piacevole, quasi inaspettatamente. Sono distratto da un cane che, come fosse l’unica sua ragione di vita, rincorre veloce la palla che il suo padrone calcia in direzione della battigia e oltre. Il cane non esita a saltellare nell’acqua, recupera la palla, la riconsegna, attende nuova rincorsa e nuovo recupero.
E così via, per un po’, con poche varianti. Il cane è giovane, di razza non identificabile, probabilmente un incrocio di poco conto, casuale, anonimo, irrilevante.
Ma è la gioia che conta, che sa esprimere con i suoi salti, le corse, con quella palla sgonfia tra i denti, la coda che scodinzola. L’insulso padrone, invece, è assorto al telefono, e scalcia a caso la palla recuperata, non degnando d’uno sguardo lo spettacolo che ha davanti. Non c’è amore nei suoi gesti, direi che non c’è vita, perlomeno non il tipo di vita che avrebbe senso in quel momento. È meccanico e approssimato, mentre la bestiola dà il massimo di sé, convinta di raccogliere, oltre alla palla, le attenzioni di lui.
Era prevista questa sequenza? Questa scena di un film che ha un solo spettatore, che appartiene al reale, mentre leggo un libro su uno scoglio che non sapevo esistesse fintanto non sono capitato lì per caso? Scena che alleggerisce il momento, che mi riporta all’infanzia, viaggio sempre piacevole, al ricordo del mio incrocio volpino, un piccolo cane di nome Jack che tanto avevo desiderato e che mio padre mi regalò in un giorno apparentemente come tanti, in realtà un giorno piuttosto diverso, di quelli che cambiano il corso delle cose. Un cane che, inconsapevolmente, insegnò a me, taciturno ragazzo di campagna, timido e introverso, la forza del sentimento.
La vita è senza trama. E lo è questo libro, riconoscendo alla mancanza di trama la dignità del ruolo dominante. Raccolgo ricordi, esplorazioni dell’Io e dell’anima. Mentalmente, oniricamente, scendo giù, vado nel fondo di quella cantina semibuia che facciamo fatica a raggiungere con le sue scale impervie, poco visibili, scomode, spesso inaccessibili. La cantina che, una volta raggiunta, esita ad accoglierci, vorrebbe non aprire i suoi passaggi, ma infine cede, così pare. Cerchiamo un punto dove rannicchiarci per capire qualcosa di quel guazzabuglio interiore che portiamo appresso. Non trovo niente di meglio di questa similitudine per parlare del nostro “profondo”.
Lì c’è tutto, dicono.