Linfoma a grandi cellule B ricaduto-refrattario: bene tafasitamab-lenalidomide


Linfoma diffuso a grandi cellule B ricaduto-refrattario: con tafasitamab-lenalidomide risposte mantenute fino a 5 anni

Linfomi diffusi a grandi cellule recidivanti o refrattari: arriva l'approvazione europea per glofitamab, primo anticorpo bispecifico per la malattia

Nei pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule B ricaduti o refrattari e non idonei al trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche, il trattamento con l’anticorpo monoclonale anti-CD19 tafasitamab in combinazione con l’immunomodulatore lenalidomide, seguito da un mantenimento con il solo tafasitamab, conferma di produrre risposte durature nel tempo. Lo dimostrano i dati dell’analisi finale dello studio registrativo L-MIND, con un follow-up di 5 anni, presentati di recente al congresso della European Hematology Association (EHA), a Francoforte.

Infatti, dopo un follow-up mediano di 44 mesi, la mediana della durata della risposta (DoR) non è stata raggiunta (NR) (IC al 95% 33,8%-NR).

I pazienti trattati con tafasitamab in seconda linea, come atteso, hanno ottenuto risultati migliori rispetto a quelli trattati in terza linea o in linee più avanzate, ma è importante sottolineare che la mediana della DoR non è stata raggiunta in nessuno dei due sottogruppi, a indicare che il trattamento è efficace a lungo termine e la risposta è duratura a prescindere dal numero di linee effettuate dai pazienti in precedenza.

Si conferma, inoltre, un tasso di risposta complessivo (ORR) di circa il 60%, con un tasso di risposta completa superiore al 40%.

Tafasitamab già approvato
Sviluppato e commercializzato da Incyte, tafasitamab è un anticorpo monoclonale anti-CD19 umanizzato, contenente un dominio Fc ingegnerizzato, che media la lisi delle cellule B attraverso una citotossicità diretta e i meccanismi effettori del sistema immunitario, fra cui la citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC) e la fagocitosi cellulare anticorpo-dipendente (ADCP).

Il farmaco è già approvato negli Stati Uniti, nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Canada, in combinazione con lenalidomide, per il trattamento dei pazienti adulti con linfoma diffuso a grandi cellule B recidivante/refrattario, non candidabili al trapianto autologo di cellule staminali. Dal novembre scorso è disponibile anche in Italia, approvato con questa indicazione e rimborsato dal Sistema sanitario nazionale.

Il via libera delle agenzie regolatorie è il frutto proprio dei risultati dello studio L-MIND, pubblicati su The Lancet Oncology nel 2020. Nel 2021 gli autori del trial, coordinati da Johannes Duell, dell’Università di Würzburg, in Germania, hanno pubblicato un aggiornamento dei dati a 3 anni, che ha evidenziato la lunga durata della risposta (DoR) a tafasitamab, con una mediana della DoR di 43,9 mesi e una mediana di sopravvivenza globale (OS) significativa (33,5 mesi).

Ora al congresso di Francoforte sono stati riportati i dati dell’analisi finale, a 5 anni, che sono considerati un traguardo importante ai fini del raggiugimento di una remissione prolungata.

Lo studio L-MIND
Lo studio L-MIND (NCT02399085) è un trial multicentrico internazionale di fase 2, a singolo braccio, in aperto, che ha coinvolto pazienti di almeno 18 anni con linfoma diffuso a grandi cellule B ricaduto/refrattario, già trattati con da una a tre terapie sistemiche, compresa una terapia anti-CD20 (per esempio, rituximab) e non idonei alla chemioterapia ad alte dosi o al trapianto autologo di cellule staminali. Inoltre, i pazienti dovevano avere un performance status ECOG da 0 a 2.

I partecipanti sono stati trattati con tafasitamab 12 mg/kg endovena in cicli di 28 giorni, una volta alla settimana durante i primi tre cicli (nei giorni 1, 8, 15 e 22) e successivamente ogni 2 settimane (nei giorni 1 e 15), per un totale di 12 cicli, più lenalidomide 25 mg/die per via orale somministrata nei primi 21 giorni di ogni ciclo, sempre per 12 cicli. Dopo il ciclo 12, i pazienti che non erano in progressione venivano trattati con tafasitamab 12 mg/kg ogni 2 settimane, come mantenimento, fino alla progressione della malattia.

L’endpoint primario dello studio era l’ORR, valutato centralmente, mentre fra gli endpoint secondari vi erano la DoR, la sopravvivenza libera da progressione (PFS), l’OS e la sicurezza.

80 pazienti trattati con la combinazione
Complessivamente sono stati arruolati 81 pazienti che hanno ricevuto almeno una dose di tafasitamab e, di questi, 80 sono stati trattati con la combinazione tafasitamab-lenalidomide.

In totale, 30 pazienti hanno completato 12 cicli di tafasitamab più lenalidomide, mentre quattro hanno interrotto l’assunzione dell’immunodulatore a causa di un evento avverso. Dopo il dodicesimo ciclo, 34 pazienti hanno proseguito tafasitamab in monoterapia, come terapia di mantenimento. Di questi, otto hanno completato il trattamento con tafasitamab come da protocollo. La ragione più comune di interruzione del trattamento con la combinazione dei due agenti è stata la ricaduta o la progressione della malattia.

Per quanto riguarda le caratteristiche di base della popolazione studiata, l’età mediana al basale era di 72 anni (range: 41,0-86,0), e oltre la metà dei pazienti (56,2%) aveva un’età superiore a 70 anni. Inoltre, poco più della metà (53,8%) era di sesso maschile. Tre quarti dei partecipanti avevano una malattia in stadio da III a IV secondo la classificazione di Ann Arbor e la metà aveva un punteggio dell’Indice Prognostico Internazionale (IPI) compreso fra 3 e 5; inoltre, il 55% presentava al basale un valore di lattato deidrogenasi (LDH) elevato.

Il 18,8% dei pazienti presentava una refrattarietà primaria, il 43,8% era risultato refrattario all’ultima linea di terapia e l’11,2% in precedenza era stato sottoposto a un trapianto autologo di cellule staminali.

Risposte durature a lungo termine e beneficio maggiore in seconda linea
I dati relativi ai tassi di risposta sono risultati generalmente coerenti con quelli dell’analisi primaria e quelli osservati con un follow-up di 3 anni.

Complessivamente, l’ORR è risultato del 57,5% (IC al 95% 45,9%-68,5%), con un tasso di risposta completa del 41,3% e un tasso di risposta parziale del 16,3%. Risultati precedenti avevano mostrato un ORR del 55%, con un tasso di risposta completa del 37% e un tasso di risposta parziale del 18%. I dati a 3 anni, inoltre, avevano sostanzialmente confermato i risultati sopra riportati, con un ORR del 57,5%, un 40% di risposte complete e un 17,5% di risposte parziali.

Analizzando i tassi di risposta in funzione del numero di linee di terapia effettuate in precedenza, si è osservato, come atteso, un beneficio maggiore quando il trattamento è stato effettuato in seconda linea. Infatti, nei 40 pazienti trattati in precedenza con una sola linea di terapia, l’ORR è risultato del 67,5% (IC al 95% 45,9%-79,4%), con tassi di risposta completa e parziale rispettivamente del 52,5% e 15%. Nei 40 pazienti trattati con almeno due linee, invece, l’ORR è risultato complessivamente del 47,5% (IC al 95% 31,5%-63,9%), con tassi di risposta completa e parziale rispettivamente del 30% e 17,5%.

Sopravvivenza a lungo termine
Per quanto riguarda i risultati di sopravvivenza, nella popolazione complessiva, con un follow-up mediano di 45,6 mesi, la mediana di PFS è risultata pari a 11,6 mesi (IC al 95% 5,7-45,7).

Anche in questo caso, il trattamento in studio ha mostrato di offrire un beneficio maggiore nei pazienti meno pretrattati. Infatti, nel sottogruppo trattato in precedenza con una sola linea di terapia, con un follow-up mediano di 57,6 mesi (IC al 95% 26,5-60,7) la mediana di PFS è risultata di 23,5 mesi (IC al 95% 7,4-NR), mentre nei pazienti trattati precedentemente con almeno linee di terapia, con un follow-up mediano di 33,9 mesi (IC al 95% 10,9-46,8) la mediana di PFS è risultata di 7,6 mesi (IC al 95% 2,7-45,5).

Nel complesso, con un follow-up mediano di 45,6 mesi, l’OS mediana è risultata di 33,5 mesi (IC al 95% 18,3-NR). Tuttavia, nei pazienti trattati in precedenza con una sola linea di terapia, la mediana di OS non è stata raggiunta (IC al 95% 24,6-NR; follow-up mediano di 57,6 mesi), mentre è risultata di 15,5 mesi (IC al 95% 8,6-45,5; follow-up mediano di 33,9 mesi) nei pazienti già trattati con almeno due linee di terapia.

Dei 26 pazienti che hanno completato il trattamento ottenendo una risposta, 23 hanno raggiunto una risposta completa e tre una risposta parziale. Due di questi pazienti, che avevano ottenuto entrambi una risposta completa, sono poi deceduti a causa della progressione di malattia, mentre altri tre (di cui uno aveva raggiunto una risposta completa e due una risposta parziale) sono deceduti per motivi diversi dal linfoma diffuso a grandi cellule B. Inoltre, quattro pazienti, che avevano tutti risposto in modo completo, sono stati trattati con una successiva terapia anti-linfoma e due di essi sono deceduti a causa della progressione della malattia.

Sicurezza della combinazione confermata
Per quanto riguarda la sicurezza del trattamento in studio, dai nuovi dati non emergono particolari novità rispetto al profilo emerso nelle analisi precedenti, che risulta sostanzialmente confermato da questo aggiornamento.

«Le analisi relative alla sicurezza a lungo termine confermano che il profilo di tossicità del trattamento è correlato per lo più alla tossicità della lenalidomide, per cui ci si aspetta una tossicità ematologica e una tossicità extra-ematologica, come la diarrea, nel primo anno di trattamento, soprattutto nei primi 3 mesi di trattamento con lenalidomide», ha sottolineato Di Rocco.

«Nel periodo del mantenimento, che si effettua con il solo anticorpo monoclonale e fino a progressione, non sono emerse tossicità a lungo termine. Pertanto, si può dire che il trattamento con tafasitamab è comunque sicuro anche sul lungo periodo», ha aggiunto l’esperta.

In generale, la frequenza degli eventi avversi emersi in corso di trattamento è diminuita dopo che i pazienti sono passati dalla combinazione al mantenimento con il solo tafasitamab, il che rappresenta un miglioramento sostanziale rispetto al profilo di sicurezza già gestibile osservato nei primi 12 mesi di terapia.

La maggior parte degli eventi avversi manifestati durante il trattamento è stata di grado 1 o 2 e tali eventi sono stati rappresentati sostanzialmente da diarrea ed edema periferico insorti durante la terapia di combinazione.

Inoltre, la maggior parte degli eventi avversi di interesse manifestati durante il trattamento è stata di natura ematologica e, di nuovo, è stata riscontrata nel periodo di trattamento combinato.

Gli autori sottolineano anche che si è osservata una bassa incidenza di reazioni infusionali e di infezioni di grado 3 o superiore.

Infine, nel primo anno di trattamento si è registrato un caso di leucoencefalopatia multipla progressiva e un caso di sindrome da rilascio da citochine, eventi che non si sono presentati in nessun paziente una volta iniziato il mantenimento con il solo tafasitamab.

Potenziale curativo, da valutare ulteriormente
«Questi dati a lungo termine suggeriscono che questa immunoterapia potrebbe avere un potenziale curativo, potenziale che è in fase di valutazione in ulteriori studi», scrivono Duell e i colleghi nelle conclusioni del loro poster.

«Alla luce del fatto che la mediana della durata della risposta non è stata raggiunta, alcuni pazienti potrebbero essere effettivamente guariti, un risultato assolutamente non è scontato in soggetti con una malattia aggressiva, che recidiva dopo una prima linea di terapia con il regime R-CHOP», ha commentato, infine, Di Rocco.

Bibliografia
J. Duell, et al. Five-year efficacy and safety of tafasitamab in patients with relapsed or refractory DLBCL: final results from the phase II L-MIND study. EHA 2023; abstract P1138. Link