Impianto di stent: doppia terapia antipiastrinica la migliore


Rinunciare all’aspirina e fare solo una la monoterapia con inibitori di P2Y12 nel primo mese dopo l’angioplastica con impianto di stent medicato non è una strategia vincente

Dopo un mese dall'intervento coronarico percutaneo (PCI) per infarto miocardico è preferibile il passaggio da ticagrelor a clopidogrel

Nei pazienti con sindrome coronarica acuta (ACS) e/o ad alto rischio di sanguinamento, rinunciare all’aspirina e fare solo una la monoterapia con inibitori di P2Y12 nel primo mese dopo l’angioplastica (PCI) con impianto di stent medicato non sembra essere una strategia vincente, stando ai risultati dello studio randomizzato STOPDAPT-3 appena presentati ad Amsterdam, in occasione del congresso europeo di cardiologia (ESC).

Infatti, rispetto alla doppia terapia antipiastrinica (DAPT) con prasugrel e aspirina, la monoterapia con prasugrel non si è dimostrata superiore nel ridurre i sanguinamenti maggiori ed è risultata non inferiore per gli eventi cardiovascolari, ma sembra aver aumentato il rischio di alcuni eventi coronarici, tra cui la trombosi subacuta dello stent e la rivascolarizzazione non pianificata, durante il primo mese di follow-up.

«Rispetto alla DAPT, la strategia senza aspirina non è riuscita a ridurre i sanguinamenti maggiori nel primo mese dopo la PCI, ma è risultata non inferiore per uno dei due endpoint primari, quello cardiovascolare, con un margine relativo del 50%. L’aspirina utilizzata per un periodo limitato di un mese dopo la PCI come componente della DAPT potrebbe aver esercitato un effetto protettivo sulle lesioni coronariche vulnerabili, in particolare nei pazienti con sindrome coronarica acuta, senza un aumento notevole dei sanguinamenti maggiori. La DAPT dovrebbe quindi rimanere la strategia standard dopo la PCI anche nell’era degli stent medicati di nuova generazione», ha dichiarato l’autore che ha presentato i dati Masahiro Natsuaki, dell’Università di Saga, in Giappone.

Meglio non rinunciare all’aspirina
Le linee guida raccomandano almeno una DAPT di breve durata dopo la PCI, prima di passare alla terapia antipiastrinica singola, e la durata del trattamento consigliata varia a seconda degli scenari clinici, In particolare, le linee guida ESC raccomandano dopo la PCI 6 mesi di DAPT nei pazienti con ACS ad alto rischio di sanguinamento e 12 mesi di DAPT nei pazienti con ACS non ad alto rischio di sanguinamento, mentre nei pazienti ad alto rischio di sanguinamento, ma senza ACS, la durata raccomandata della DAPT è di 1-3 mesi. Tuttavia, ma l’incidenza di sanguinamenti maggiori entro il primo mese dopo la procedura rimane elevata, soprattutto tra i pazienti con ACS o un alto rischio di sanguinamento, ha osservato.

Il concetto esplorato nello studio STOPDAPT-3, rafforzato dai dati di un precedente studio pilota, era che rinunciare del tutto all’aspirina dopo la PCI potrebbe ridurre gli eventi emorragici subito dopo la procedura, senza dover pagare un prezzo in termini di aumento degli eventi coronarici. Ma l’ipotesi non si è rivelata corretta.

Manesh Patel, del Duke Clinical Research Institute di Durham (North Carolina), membro del consiglio di amministrazione nazionale dell’American Heart Association, ha osservato che la dose più bassa di prasugrel utilizzata in Giappone – e in questo studio – rispetto ad altri Paesi del mondo rende difficile estrapolare i risultati ad altre popolazioni rispetto a quella studiata.

Tuttavia, ha commentato l’esperto, «tenendo presente questo caveat, lo studio STOPDAPT-3 è comunque abbastanza importante da dirci che potrebbe esserci un rischio di trombosi dello stent precoce in questi pazienti, e che la cautela indurrebbe a mantenere almeno per un certo periodo la doppia terapia antipiastrinica».

Lo studio STOPDAPT-3
STOPDAPT-3 è un trial randomizzato condotto in 72 centri in Giappone, nel quale si sono valutati efficacia e sicurezza della monoterapia con prasugrel senza aspirina rispetto alla DAPT con aspirina e prasugrel per un mese in pazienti con ACS (circa il 75%) e/o ad alto rischio di sanguinamento (circa il 55%) sottoposti a PCI con stent in platino-cromo a rilascio di everolimus.

L’analisi principale ha incluso 5966 pazienti (età media: 71,6 anni; 23,4% donne) assegnati appena prima della PCI, secondo un rapporto 1:1, alla monoterapia con prasugrel o alla DAPT con prasugrel e aspirina. I pazienti di entrambi i bracci hanno ricevuto una dose di carico di prasugrel da 20 mg, seguita da una dose di mantenimento giornaliera di 3,75 mg per un mese, mentre quelli nel braccio sottoposto alla DAPT sono stati trattati anche con una dose giornaliera di aspirina compresa tra 81 e 100 mg, con una dose di carico compresa tra 162 e 200 mg nei pazienti naïve all’aspirina.

I due endpoint primari dello studio erano l’incidenza dei sanguinamenti maggiori (definiti come Bleeding Academic Research Consortium [BARC] di tipo 3 o 5) (analisi di superiorità) e quella degli eventi cardiovascolari (l’insieme di morti cardiovascolari, infarto miocardico, trombosi definita dello stent e ictus) (analisi di non inferiorità), a 1 mese. L’endpoint secondario principale era rappresentato dalla combinazione dei due endpoint primari a 1 mese e rappresentava il beneficio clinico netto del trattamento.

Saltare l’aspirina non riduce i sanguinamenti maggiori
Saltare l’aspirina non ha ridotto significativamente il tasso di sanguinamenti maggiori a 1 mese rispetto alla DAPT (4,47% contro 4,71%; HR 0,95; IC al 95% 0,75-1,20).

Inoltre, la monoterapia con prasugrel si è dimostrata non inferiore alla DAPT riguardo al tasso di eventi cardiovascolari, poiché il limite superiore dell’ intervallo di confidenza è sceso al di sotto del 50% (4,12% vs 3,69%; HR 1,12; IC al 95% 0,87-1,45; P = 0,01 per la non inferiorità).

Non è stata riscontrata alcuna differenza fra i due bracci riguardo al tasso di mortalità per qualunque causa (2,28% contro 2,11%), e l’incidenza dell’endpoint secondario principale è risultata rispettivamente del 7,14% contro 7,38%, senza una differenza significativa fra i due bracci, indice di un effetto simile delle due strategie per quanto riguarda il beneficio clinico netto.

Tuttavia, nei pazienti trattati con prasugrel in monoterapia si sono registrati tassi significativamente più elevati di trombosi dello stent subacuta definita o probabile (0,58% contro 0,17%; HR 3,40; IC al 95% 1,26-9,23) e di qualsiasi rivascolarizzazione coronarica non pianificata (1,05% contro 0,57%; HR 1,83; IC al 95% 1,01-3,30). Altri outcome, tra cui infarto miocardico, trombosi dello stent definita/probabile, trombosi dello stent definita, ictus ischemico e rivascolarizzazione della lesione target, hanno mostrato tassi simili nei due bracci.

Da segnalare che in un’analisi di sottogruppo nella quale i pazienti erano stratificati in base all’avere o meno una ACS, l’eccesso di rischio di eventi cardiovascolari nel braccio trattato con il solo prasugrel rispetto a quello sottoposto alla DAPT è stato osservato nei pazienti con ACS, ma non in quelli senza ACS.

Molteplici possibili ragioni
Riguardo al motivo per cui evitare l’aspirina nel trattamento post-PCI non ridurrebbe il sanguinamento, Natsuaki ha indicato molteplici possibili ragioni. Potrebbero esserci state differenze nei tipi di sanguinamento registrati immediatamente dopo la PCI nello studio STOPDAPT-3 e quelli osservati negli studi focalizzati sulla fase cronica dopo la PCI; per esempio, nello studio STOPDAPT-3 solo il 15% dei pazienti ha avuto sanguinamenti gastrointestinali, una percentuale molto inferiore rispetto a circa il 50% dei partecipanti agli studi precedenti.

Inoltre, qualsiasi potenziale riduzione dei sanguinamento potrebbe essere stata diluita dagli effetti di un‘estesa terapia antitrombotica prima e durante la procedura, o potrebbe darsi che l’anticoagulazione abbia un impatto maggiore sul sanguinamento rispetto alla terapia antipiastrinica, ha spiegato l’autore.

E dal punto di vista del rischio trombotico, ha aggiunto, «l’aspirina utilizzata per un periodo limitato di 1 mese dopo la PCI potrebbe aver esercitato un effetto protettivo sulle lesioni coronariche vulnerabili, senza un grosso aumento dei sanguinamenti maggiori».

Dosi di prasugrel più basse di quelle utilizzate in Occidente
In conferenza stampa, il moderatore Steen Dalby Kristensen, dell’Ospedale universitario di Aarhus, in Danimarca, ha fatto notare che le dosi di prasugrel utilizzate nello studio STOPDAPT-3 sono molto inferiori a quelle utilizzate nel mondo occidentale, circa un terzo della dose tipica. Tuttavia, nonostante la differenza nel dosaggio, ha detto, «penso che i risultati siano molto interessanti e in un certo senso dimostrino che saltare l’aspirina entro il primo mese sembra non essere una buona idea».

Natsuaki ha spiegato che la dose più bassa utilizzata nello studio è correlata al rischio ischemico relativamente basso e al rischio di sanguinamento relativamente alto dei pazienti giapponesi, riconoscendo che bisogna essere cauti nel generalizzare questi risultati ad altre popolazioni. Ha poi aggiunto che occorre attendere i risultati degli studi in corso, fra cui lo studio LEGACY, per ottenere maggiori informazioni sull’utilità delle strategie che non prevedono l’uso di aspirina.

Nel frattempo, «mentre questi studi vanno avanti, penso che questi dati siano importanti», ha affermato Patel.

«Studio ben progettato e ben condotto», ma con alcuni quesiti aperti
Il discussant dello studio, Marco Valgimigli, dell’Università di Berna e del Cardiocentro Ticino di Lugano, dell’Università della Svizzera italiana (USI), ha affermato che STOPDAPT-3 è uno studio ben progettato, ben condotto, e con un’adeguata potenza statistica, almeno per quanto concerne l’analisi di superiorità dei sanguinamenti maggiori. Il margine di non inferiorità era generoso per l’analisi degli eventi cardiovascolari, ha osservato l’esperto.

I risultati e le implicazioni per la pratica clinica, sono chiari, secondo Valgimigli: «l’aspirina rimane un trattamento fondamentale nella fase periprocedurale e acuta della PCI nei pazienti che non hanno indicazione all’anticoagulazione orale».

Il discussant ha osservato, tuttavia, che STOPDAPT-3 lascia diverse domande irrisolte, evidenziando questioni relative al tipo e alla dose di monoterapia con inibitori di P2Y12 utilizzata, alla popolazione target (si trattava principalmente di una coorte di pazienti con ACS e non di una coorte pura ad alto rischio di sanguinamento), al ruolo dell’imaging intravascolare, utilizzato di routine e al ruolo della somministrazione di aspirina periprocedurale versus postprocedurale.

Bibliografia
M. Natsuaki, et al. An aspirin-free versus dual antiplatelet strategy for coronary stenting: STOPDAPT-3 randomized trial. ESC 2023