Beta-bloccanti dopo infarto miocardico: cura messa in discussione


Beta-bloccanti a lungo termine post-infarto miocardico: questa pratica prescrittiva consolidata è ora messa in discussione

Dopo un infarto, evolocumab riduce il rischio cardiovascolare a breve e a lungo termine secondo i risultati di un nuovo studio scientifico

La pratica convenzionale di somministrare beta-bloccanti a lungo termine per la prevenzione secondaria  cardiovascolare (CV) dopo un infarto del miocardico (IM), in assenza di un’altra indicazione clinica, è stata messa in discussione da un ampio studio di coorte svedese, pubblicato online su “Heart”.

Nei pazienti sopravvissuti all’evento acuto, che erano ancora in terapia con beta-bloccanti un anno dopo il ricovero per infarto e avevano una frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF) normale, gli anni successivi non hanno portato un rischio significativamente più basso di mortalità combinata per tutte le cause, IM, rivascolarizzazione non programmata e ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (HF) dopo ponderazione inversa del punteggio di propensione e aggiustamento multivariato (18,9% vs 21,7% in pazienti della stessa età non trattati con beta-bloccanti; HR aggiustato 0,99, IC 95% 0,93-1,04).

Questo risultato è persistito dopo aver tenuto conto dell’interruzione del beta-bloccante o di uno switch farmacoterapico nel corso di un follow-up mediano di 4,5 anni nella coorte di pazienti consecutivi in studio, ricavata dal registro nazionale SWEDEHEART, scrivono Gorav Batra, cardiologo dell’Università di Uppsala (Svezia) e colleghi.

Le indicazioni delle linee guida e le lacune lasciate dagli studi precedenti
Per molti anni, le linee guida americane ed europee hanno riportato un’approvazione diffusa ai beta-bloccanti dopo l’IM con o senza sovraslivellamento del tratto ST (STEMI e NSTEMI, rispettivamente), indipendentemente dalla funzione ventricolare sinistra e senza specificare la durata della terapia.

Tuttavia, questa classe di farmaci è ora in declino, poiché la loro base di prove a supporto è giudicata obsoleta, proveniente da un’era precedente all’avvento di riperfusione precoce, rivascolarizzazione coronarica precoce, statine, antitrombotici e altri trattamenti contemporanei per l’IM.

Inoltre, eventuali benefici percepiti come derivanti dal trattamento con beta-bloccanti devono essere valutati rispetto al rischio di effetti collaterali come depressione e affaticamento.

«I risultati del nostro studio colmano una lacuna esistente nelle prove attuali e forniscono una panoramica sulle strategie di prevenzione secondaria ottimale a lungo termine per una grande percentuale di pazienti sopravvissuti all’IM, ovvero senza HF o disfunzione sistolica ventricolare sinistra (LVSD) che possono avere una sopravvivenza più lunga rispetto a quelli che sviluppano tali complicanze dopo un IM» scrivono Batra e colleghi.

Studio di coorte su pazienti STEMI e NSTEMI basato sul registro SWEDEHEART
Lo studio di coorte a livello nazionale ha incluso individui che hanno avuto un IM nel periodo 2005-2016 riportato nel registro SWEDEHEART. Le persone ritenute idonee e incluse nella ponderazione del punteggio di propensione erano rappresentate da 43.618 individui senza HF o asma un anno dopo l’ospedalizzazione per IM. Erano tutti soggetti adulti che erano stati ricoverati in ospedale con STEMI e NSTEMI in una delle 74 unità di assistenza cardiaca in Svezia. L’età media della coorte – della quale il 25,5% dei partecipanti era costituito da donne – era di 64 anni.

Secondo i registri di distribuzione dei farmaci in Svezia, il 78,5% aveva ancora ricevuto beta-bloccanti un anno dopo l’IM. Alcune caratteristiche basali erano ben abbinate tra i gruppi dei pazienti trattati e non trattati con beta-bloccanti, sebbene quest’ultimo gruppo contasse circa il doppio dei pazienti con anamnesi positiva per precedente IM o rivascolarizzazione coronarica, ma avesse meno probabilità di avere uno STEMI o una procedura di rivascolarizzazione ospedaliera e di essere in trattamento con statine.

In questo studio osservazionale, i tentativi di aggiustare le differenze tra i gruppi lasciavano ancora spazio ad aree residue di confondimento. Inoltre, i ricercatori non hanno potuto accertare la reale aderenza alla terapia beta-bloccante da parte dei partecipanti allo studio.

Occorrono ampi RCT per una rivalutazione degli effetti del beta-blocco
«Le differenze sostanziali negli effetti del trattamento tra gli studi caso-controllo aggiustati per punteggio di propensione rispetto agli studi clinici randomizzati condotti con lo stesso trattamento sono ben descritte. Queste nuove evidenze supportano il pensiero che sia necessario effettuare ampi studi clinici randomizzati per valutare in modo affidabile gli effetti del trattamento» commentano Tom Evans e Ralph Stewart, del Te Whatu Ora Health New Zealand Te Toka Tumai Auckland (Nuova Zelanda), in un editoriale di accompagnamento.

«Nonostante le forti prove che evidenziano come i beta-bloccanti a lungo termine possano migliorare gli esiti dopo un IM, non è del tutto chiaro se questo beneficio sia estendibile ai pazienti a basso rischio che stanno assumendo altre terapie EBM (evidence-based medicine) e che hanno una normale LVEF. È quindi importante gli spazi di vuoto informativo lasciati dagli studi cardine» aggiungono Evans e Stewart.

Ci si aspetta che vari studi in corso – come BETAMIREDUCE-SWEDEHEART e DANBLOCK possano per l’appunto rispondere ad alcuni dei punti interrogativi lasciati aperti dalle sperimentazioni cliniche precedenti.

Fonti:
Ishak D, Aktaa S, Lindhagen L, et al. Association of beta-blockers beyond 1 year after myocardial infarction and cardiovascular outcomes. Heart. 2023 May 2. doi: 10.1136/heartjnl-2022-322115. [Epub ahead of print] leggi

Evans T, Stewart R. Should beta-blockers be recommended after myocardial infarction when left ventricular ejection fraction is normal? Heart. 2023 May 2. doi: 10.1136/heartjnl-2023-322544. [Epub ahead of print] leggi