Gravidanza sicura con l’HIV: è possibile con le giuste terapie


Una gravidanza sicura nonostante l’HIV è possibile, con le giuste terapie e affidandosi a percorsi dedicati che azzerano i rischi di trasmissione del virus ai neonati

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La storia naturale del virus HIV è cambiata enormemente nel tempo, insieme a quella della malattia che provoca: l’AIDS. Agli inizi degli anni ’80 essere sieropositivi era quasi sempre vissuta come una condanna a morte. Oggi invece sempre più persone convivono con il virus, hanno un’aspettativa di vita paragonabile a quella di chiunque altro e, soprattutto, possono condurre una vita normale senza timore di contagiare i propri cari, avendo rapporti sessuali e dando alla luce figli perfettamente sani. Un progresso che è stato possibile grazie a terapie antiretrovirali sempre migliori, alle diagnosi precoci ma anche a percorsi dedicati che – ad esempio sul fronte dell’HIV nelle donne in gravidanza – hanno permesso di azzerare i rischi di trasmissione del virus ai neonati. Ne parla Beatrice Tassis, specialista nella gestione delle gravidanze HIV positive e responsabile del Consultorio Familiare – Pronto Soccorso Ostetrico/Ginecologico del Policlinico di Milano.

Quanto è esteso il problema dell’HIV in gravidanza?

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo ci sono oltre 37,7 milioni di persone che convivono con un’infezione da HIV. Di queste, 36 milioni circa sono adulti, e più della metà (53%) sono donne o ragazze. Inoltre, sono 1,4 milioni le donne con HIV che hanno dato alla luce un bambino: un dato enorme.

Oltre alle conseguenze che questo virus può comportare in una persona sieropositiva, bisogna considerare la ‘trasmissione verticale’ del virus, quella cioè in cui una donna in gravidanza può passare il virus al bambino: sia durante la gestazione, sia durante il parto o con l’allattamento al seno. Poter gestire queste situazioni nei centri specializzati, come ad esempio alla Clinica Mangiagalli del Policlinico di Milano, permette praticamente di azzerare i rischi e di far nascere un bimbo sano nonostante la madre sia sieropositiva. Per farlo, però, è necessaria la diagnosi precoce, se possibile addirittura prima del concepimento, e bisogna assumere correttamente le terapie antiretrovirali per ‘abbattere’ la presenza del virus nell’organismo della madre.

Davvero è possibile evitare di trasmettere l’HIV al proprio bambino?

Certo. I dati ci dicono che la situazione è migliorata drasticamente negli ultimi 10 anni circa. Prima del 2008, ad esempio, la trasmissione del virus dalla mamma al feto avveniva in quasi il 92% dei casi. Negli anni successivi, grazie ai progressi fatti nella gestione delle donne sieropositive e all’utilizzo di farmaci antiretrovirali sempre più efficaci, la trasmissione verticale dell’HIV si è progressivamente ridotta: già nel 2014 era del 2%, mentre dal 2018 in poi si è attestata allo 0%. Ovvero, nessun caso.

La gravidanza di una donna sieropositiva è diversa da quella di tutte le altre? Si partorisce allo stesso modo, o sono necessarie particolari precauzioni?

Tendenzialmente la sua gravidanza sarà come quella di tutte le altre donne, a patto che sappia di avere l’HIV e che lo stia trattando adeguatamente. Purtroppo, in una gravidanza trascurata o in situazioni sociali molto particolari, può accadere che la donna scopra tardi di essere sieropositiva, a volte addirittura al momento del parto: in queste situazioni vanno prese delle precauzioni ulteriori per proteggere sia la madre sia il bambino.

Per spiegare queste differenze, però, dobbiamo fare un passo indietro e spiegare come viene gestita l’infezione da HIV durante la gravidanza.

E quindi, come viene gestita l’infezione da HIV in gravidanza?

La premessa generale da tenere a mente è che, grazie alle terapie antiretrovirali oggi disponibili, è possibile mantenere prossima allo zero la quantità di virus presente nel sangue (la cosiddetta ‘carica virale’) di una persona sieropositiva. Se il virus non è rilevabile, allora non si può trasmettere, e questo significa che si annulla il rischio di passare l’HIV ad un partner attraverso i rapporti sessuali, così come di trasmetterlo al feto durante la gravidanza.

Per abbattere la carica virale, però, serve tempo: ci vogliono da 1 a 6 mesi dopo l’inizio della terapia perché si riduca praticamente a zero, e sono necessari ulteriori 6 mesi durante i quali il virus deve continuare per tutto il tempo a rimanere non rilevabile negli esami di laboratorio. Passata questa fase, la persona sieropositiva non rischia di contagiare il partner o il feto, finché la carica virale rimane negativa, finché continua ad assumere la terapia antiretrovirale e continuando a sottoporsi a esami periodici per mantenere la situazione sotto controllo.

Lo screening per l’infezione da HIV all’inizio del percorso gravidanza è quindi fondamentale, ed è raccomandato alla coppia addirittura nella fase pre-concezionale, in modo da poter iniziare l’eventuale terapia antiretrovirale il più precocemente possibile. Una diagnosi precoce, infatti, garantisce la miglior opportunità sia per migliorare la salute materna sia per gestire la gravidanza nel modo più adatto, e infine per prevenire l’infezione nel neonato.

Torniamo al parto: come avviene se la mamma è sieropositiva?

Se la donna con HIV arriva al termine della gravidanza con una carica virale negativa in modo stabile, e con un numero di linfociti stabile da almeno 4 settimane (queste sono le cellule attaccate dal virus), può tranquillamente fare un parto vaginale senza che il bimbo abbia problemi. Il parto vaginale può essere consentito anche se la donna ha delle co-infezioni da epatite B o C, oppure se abbia già effettuato un taglio cesareo in precedenza.

Al contrario, se la donna non sta seguendo una terapia antiretrovirale, oppure se scopre la sua positività solo al momento del parto, oppure se è in terapia ma la sua carica virale è rilevabile (e quindi non è zero), allora si deve procedere con un taglio cesareo intorno alle 38 settimane di gestazione, per evitare che ci sia la trasmissione del virus al feto durante le contrazioni del travaglio.

Cosa accade dopo il parto?

La neomamma dovrà continuare la sua terapia antiretrovirale come ha sempre fatto, oppure iniziarne una il prima possibile. Il bimbo invece non dovrà fare nulla; tutt’ al più, in alcuni casi selezionati potrebbe essere opportuno che segua una terapia a scopo profilattico, ovvero che assuma dei farmaci antiretrovirali per le prime settimane di vita: è una precauzione in più che abbatte ulteriormente il rischio (già molto basso) di contrarre l’infezione.

L’allattamento al seno, invece, attualmente è controindicato da tutte le linee guida e dovrebbe essere sostituito con il latte artificiale: sia per la possibilità di trasmettere il virus, sia per non esporre il piccolo alle possibili tossicità dei farmaci assunti dalla mamma. Parliamo comunque di un rischio di trasmissione molto basso: nelle donne che seguono con successo la terapia antiretrovirale, la trasmissione dell’HIV con l’allattamento è del 0.3% dopo 6 mesi, 0.6% dopo 9 mesi e 0.7% dopo 12 mesi. Considerata questa bassa incidenza, e i benefici che comunque comporterebbe l’allattamento materno, il dibattito scientifico è ancora in corso; secondo le indicazioni attuali l’allattamento al seno nelle donne sieropositive non dovrebbe tuttavia essere raccomandato. Ma se mostrano una forte motivazione a farlo dovrebbero almeno sottoporsi ad una consulenza medica sui rischi e sui benefici a cui eventualmente andrebbe incontro, arrivando a una decisione consapevole e condivisa con lo specialista di riferimento.

Ci sono percorsi dedicati alle donne sieropositive e in gravidanza al Policlinico di Milano?

La Clinica Mangiagalli del Policlinico di Milano può contare su tutte le competenze necessarie per poter affrontare con serenità una gravidanza di questo tipo. Il team di specialisti comprende medici infettivologi e ginecologi esperti di gravidanze ad alto rischio complicate da patologie virali, che sono in grado di seguire la donna e la coppia sia prima del concepimento, sia durante tutto il percorso della gravidanza, proseguendo con l’assistenza della mamma e del bambino in tutte le fasi successive della vita.

FONTE: POLICLINICO MILANO