Tumore ovarico avanzato: nuovi dati su uso di bevacizumab


Carcinoma ovarico avanzato: prolungare la terapia di mantenimento con bevacizumab dopo la terapia di prima linea non ritarda la progressione

Tumore ovarico avanzato: secondo i risultati di un nuovo studio la chemioterapia intraperitoneale ipertermica offre beneficio ad alcune pazienti

Prolungare la terapia di mantenimento con l’anti-angiogenico bevacizumab dopo la terapia di prima linea è utile per ritardare ulteriormente la progressione della malattia in pazienti con carcinoma ovarico avanzato? La risposta arriva dai risultati dello studio di fase 3 BOOST (NCT01462890), appena pubblicati sul Journal of Clinical Oncology, ed è negativa.

Infatti, nello studio in questione, portare da 15 a 30 mesi la durata del trattamento con bevacizumab non ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione (PFS) in pazienti con carcinoma ovarico di nuova diagnosi in stadio IIB-IV della classificazione FIGO.

Nelle due coorti di pazienti con carcinoma ovarico trattate con bevacizumab non si è trovata alcuna differenza significativa nella PFS mediana fra quelle trattate con l’anti-angiogenico per 15 mesi (24,2 mesi) e quelle trattate per 26,0 mesi (HR 0,99; IC al 95% CI, 0,85-1,15; P = 0,90).

Anche i risultati di sopravvivenza globale (OS) mediana sono stati simili tra i due bracci (54,3 mesi e 60,0 mesi; HR 1,04; IC al 95% 0,87-1,23; P = 0,68).

Inoltre, l’incidenza degli eventi avversi di interesse è risultata del 29% nel braccio trattato con bevacizumab per 15 mesi e 34% nel braccio trattato per 30 mesi di trattamento. Gli eventi avversi riportati sono risultati coerenti con quelli riportati in precedenza per bevacizumab.

«L’estensione della durata della terapia di mantenimento con bevacizumab non ha migliorato in modo significativo la PFS e, pertanto, la durata approvata di bevacizumab [15 mg/kg una volta ogni 3 settimane per 15 mesi] rimane lo standard of care… nel setting di prima linea», scrivono gli autori dello studio.

Durata ottimale del trattamento con bevacizumab era incerta
Due studi precedenti hanno dimostrato che il trattamento con bevacizumab in aggiunta alla chemioterapia di prima linea con carboplatino e paclitaxel, somministrato in concomitanza con la chemioterapia e poi proseguito come terapia di mantenimento, conferisce un beneficio di PFS alle pazienti con carcinoma ovarico. Tuttavia, prima dello studio BOOST, la durata ottimale del trattamento con l’anti-angiogenico non era chiara.

Lo studio BOOST è stato disegnato proprio per stabilire quale sia la durata migliore del trattamento con bevacizumab nel setting di prima linea e i ricercatori hanno esteso la durata del trattamento da 15 mesi (la stessa adottata in uno dei due studi sopracitati) a 30 mesi per valutare se un’esposizione più lunga potrebbe migliorare l’efficacia.

Lo studio BOOST
Lo studio BOOST è un trial multicentrico europeo, randomizzato, in aperto, che ha coinvolto 927 pazienti con carcinoma ovarico epiteliale in stadio IIB-IV, delle tube di Falloppio o peritoneale primario (qualsiasi grado o sottotipo istologico) di nuova diagnosi, arruolate tra l’11 novembre 2011 e il 6 agosto 2013. Le partecipanti dovevano essere state sottoposte all’intervento di chirurgia citoriduttiva primaria almeno 8 settimane prima dell’inizio della chemioterapia e più di 4 settimane prima della data di inizio pianificata del trattamento con bevacizumab.

La PFS valutata dagli sperimentatori rappresentava l’endpoint primario degli studi, mentre gli endpoint secondari comprendevano l’OS, il tasso di risposta obiettiva (ORR), la qualità di vita correlata alla salute, la sicurezza e la tollerabilità.

Nessun vantaggio nemmeno sugli altri endpoint
Non è stata osservata alcuna differenza fra il braccio trattato con bevacizumab per 15 mesi e quello trattato per 30 mesi nemmeno per quanto riguarda l’ORR, che è risultato rispettivamente del 26% e 27% (P = 0,87).

L’incidenza degli eventi avversi di qualsiasi grado è risulta identica, ed elevata, nei due bracci di trattamento (99%), mentre sia l’incidenza degli eventi avversi di grado 3 o superiore sia quella degli eventi avversi gravi sono risultate simili (rispettivamente, 63% contro 68% e 44% contro 46%). Un evento avverso grave è stato definito come un qualsiasi evento che ha provocato la morte, il ricovero ospedaliero, il prolungamento del ricovero esistente, è risultato potenzialmente letale o ha indotto una disabilità.

Il trattamento prolungato con bevacizumab è risultato associato a un lieve aumento dell’ipertensione o della proteinuria di grado 3 o superiore; tuttavia, questo è risultato l’unico evento avverso speciale di interesse indotto dal trattamento prolungato.

Limiti dello studio e conclusioni
Tra le limitazioni dello studio, gli autori citano la mancata valutazione dello stato mutazionale di BRCA; pertanto, osservano, non è possibile escludere qualsiasi potenziale squilibrio tra i due bracci di trattamento. Inoltre, aggiungono che il disegno in aperto senza una revisione indipendente in cieco dei dati di PFS potrebbe rappresentare una limitazione; nel contempo, tuttavia, fanno notare che le pazienti avrebbero potuto non essere disposti a ricevere un placebo per un massimo di 15 mesi.

«Una durata più lunga del trattamento con bevacizumab, fino a 30 mesi, non ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione o la sopravvivenza globale in pazienti con carcinoma ovarico epiteliale, delle tube di Falloppio o peritoneale primario», concludono, quindi, gli autori dello studio, aggiungendo che la durata del trattamento con bevacizumab di 15 mesi rimane lo standard di cura.

Bibliografia
J. Pfisterer, et al. Optimal treatment duration of bevacizumab as front-line therapy for advanced J ovarian cancer: AGO-OVAR 17 BOOST/GINECO OV118/ENGOT Ov-15 open-label randomized phase III trial. J Clin Oncol; doi:10.1200/JCO.22.01010. Link