Efficacia dei filtri solari: in futuro stop ai test su esseri umani


L’efficacia dei filtri solari è oggi valutata misurando quanto “si scottano” i volontari che partecipano ai test. Sono allo studio delle alternative

filtri solari

Le radiazioni ultraviolette (UV) sono la principale causa dei tumori cutanei e per questo per proteggere la pelle si raccomanda di utilizzare i filtri solari, che bloccano le radiazioni dannose. Potrebbe sembrare un controsenso, ma l’efficacia dei filtri solari oggi viene valutata esponendo degli esseri umani alle radiazioni ultraviolette. È eticamente accettabile che, per sapere se una crema solare funziona, si provochi per esempio un eritema a qualcuno? Esistono delle alternative?

Come si valuta l’efficacia dei filtri solari

Nelle sperimentazioni per misurare l’efficacia di questi prodotti si applica una certa quantità di crema, spray, latte o simili sulla pelle di volontari con determinate caratteristiche. La capacità del filtro solare di proteggere dai raggi UVA e UVB viene stabilita, rispettivamente, misurando dopo quanto tempo si verifica la pigmentazione della pelle o l’eritema in seguito all’esposizione a una sorgente artificiale di radiazioni UV.

Per determinare il fattore di protezione solare (il cosiddetto SPF), le agenzie regolatorie accettano solo i risultati di esperimenti come questi, che sono detti “in vivo”. L’SPF di un prodotto solare consiste infatti nel rapporto tra la dose minima di radiazioni che provoca eritema (MED) sulla pelle protetta dal prodotto e la dose minima che lo provoca invece sulla pelle non protetta dello stesso soggetto. La risposta eritematosa, che si manifesta con l’arrossamento della pelle ed è una reazione infiammatoria indotta dalle radiazioni, viene accertata 16-24 ore dopo l’esposizione alla sorgente UV.

Le alternative

“I test basati sulla risposta eritematosa di soggetti umani sono discutibili, dato che l’esposizione ad alte dosi di raggi UV pone i volontari a rischio di subire danni cutanei o addirittura di sviluppare tumori della pelle” scrivono alcuni ricercatori australiani in un recente articolo interamente dedicato a tali test, pubblicato sulla rivista Trends in Analytical Chemistry. “In più bisogna sottolineare che, dal momento che si impiegano più soggetti con diversi tipi di pelle, test eseguiti in centri differenti raramente restituiscono lo stesso SPF, il che fa sorgere dei dubbi sulla riproducibilità di queste misure”.

Una possibile alternativa è rappresentata da un test ibrido, in cui il prodotto viene sempre applicato sulla pelle di volontari, ma, anziché indurre un eritema, si misura con uno strumento la radiazione riflessa dal filtro solare. Questo metodo consente di utilizzare una dose di irraggiamento più bassa, ma non elimina del tutto i rischi associati alla sperimentazione.

I ricercatori stanno da tempo studiando esperimenti “in vitro”, ossia misure di laboratorio in cui si prova a usare substrati artificiali in sostituzione della pelle umana. Mettere a punto questo tipo di test è tutt’altro che facile, in quanto riprodurre la pelle e le sue molteplici reazioni ai raggi UV non è banale. Bisogna inoltre considerare tutte le possibili interazioni chimiche e fisiche tra il filtro solare e il substrato, che possono interferire con i risultati. Infine, bisogna standardizzare l’applicazione del prodotto sul substrato.

Un altro approccio utilizzabile in laboratorio è quello in silico, in cui si effettuano simulazioni al computer per stimare il valore di SPF sulla base degli ingredienti del prodotto solare e dei loro spettri UV. Un grosso limite di questo tipo di test è dato dal fatto che la composizione precisa del prodotto è nota solo al produttore, e numerosi eccipienti possono influenzare non poco i risultati.

I filtri solari sono considerati cosmetici e, in quanto tali, per legge non possono essere valutati nella loro versione finita (cioè come crema o come lozione) in animali di laboratorio.

La questione va probabilmente affrontata da un altro punto di vista. O almeno questo è quanto ipotizzano gli autori dell’articolo citato. “È solo perché tradizionalmente abbiamo fatto affidamento sui valori di SPF che continuiamo a cercare modi per replicare quei valori con un metodo di laboratorio” scrivono. “In alternativa, la domanda che dovremmo porci è: in un mondo che ha cambiato i propri valori etici e che dispone di nuove tecnologie, è possibile individuare approcci innovativi per valutare l’efficacia dei filtri solari?”.

Come ci si protegge dal sole?

Il Cancer Council australiano, in linea con quanto suggerito dall’Organizzazione mondiale della sanità, ha lanciato una campagna di sensibilizzazione che si può sintetizzare con questo slogan: “Slip, Slop, Slap, Seek and Slide”. Per minimizzare l’esposizione alle radiazioni ultraviolette, in altri termini, è bene adottare queste cinque abitudini:

  • Infilarsi (“slip on”) vestiti protettivi.
  • Spalmarsi (“slop on”) un filtro solare sulle parti del corpo esposte al sole.
  • Indossare (“slap on”) un cappello a falde larghe.
  • Cercare (“seek”) l’ombra quando e dove possibile.
  • Inforcare (“slide on”) gli occhiali da sole.

I filtri solari

I filtri solari si sono dimostrati efficaci nel ridurre l’incidenza dei tumori cutanei e nel proteggere la pelle dall’invecchiamento precoce. Persone con colore della pelle differente hanno una diversa sensibilità ai raggi UV (più correttamente, si dice che hanno un diverso fototipo). Sono particolarmente sensibili i soggetti con una carnagione molto chiara, ma anche quelli con la pelle scura, pur resistendo di più alle scottature, non sono immuni ai danni indotti alle cellule della pelle dalle radiazioni UV. È pertanto opportuno che tutti usino un’adeguata protezione solare.

I filtri solari contengono ingredienti attivi che assorbono, riflettono o diffondono i raggi UV. Gli ingredienti attivi possono essere composti inorganici, come il biossido di titanio (TiO2) e l’ossido di zinco (ZnO), o composti organici, come l’ossibenzone, l’octocrylene e il butil-metossidibenzoilmetano. In genere i primi sono definiti anche “filtri fisici” e i secondi “filtri chimici”. Per la verità si tratta in entrambi i casi di sostanze chimiche, mentre i meccanismi di azione con cui esse schermano dai raggi UV sono fenomeni fisici; sarebbe quindi più corretto distinguere tra filtri inorganici e filtri organici.

I componenti dei filtri solari e la loro concentrazione massima sono autorizzati dagli enti regolatori locali. La Commissione europea ha approvato l’uso nei prodotti cosmetici di 45 filtri UV, il cui elenco aggiornato è disponibile sul sito dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA).

Come funzionano

I filtri organici captano i raggi UV e l’energia assorbita viene emessa sotto forma di radiazione a bassa energia e lunghezza d’onda maggiore, oppure dissipata sotto forma di calore. I filtri inorganici non solo assorbono i raggi UV, ma li riflettono e li disperdono. Esistono protezioni solari che contengono sia filtri organici sia filtri inorganici, che agiscono quindi in modo sinergico.

I filtri solari sono disponibili in un’ampia gamma di formulazioni: lozioni, creme, gel, spray eccetera. Tutte le preparazioni, indipendentemente dalla formulazione, devono riportare in etichetta:

  • il fattore di protezione solare (SPF, dall’inglese Sun Protection Factor), che indica in quale misura il prodotto è efficace contro le scottature; più l’SPF è alto, maggiore è la protezione;
  • l’ampiezza dello spettro solare: la dicitura “ad ampio spettro” indica che il prodotto protegge sia dai raggi UVB sia dai raggi UVA. L’esposizione prolungata ai raggi UVA aumenta il rischio di cancro della pelle, perciò i filtri ad ampio spettro offrono una maggiore protezione;
  • la resistenza all’acqua: la dicitura “resistente all’acqua/water resistant” indica che il prodotto rimane efficace per un certo periodo di tempo (che, a seconda delle regole locali, può essere pari a 40, 80 o 240 minuti) anche quando si fa il bagno o si suda molto.

FONTE: AIRC