Fibrillazione atriale: rivaroxaban da solo è più efficace


Malattia coronarica stabile e fibrillazione atriale: rivaroxaban da solo riduce gli eventi trombotici e di sanguinamento totali

Un nuovo studio dimostra che lo scompenso cardiaco può essere prevenuto grazie ad un algoritmo che combina i trend rilevati dal monitoraggio remoto

Nei pazienti con malattia coronarica (CAD) stabile e fibrillazione atriale (AF), l’uso di rivaroxaban da solo piuttosto che in combinazione con la terapia antipiastrinica riduce gli eventi trombotici e di sanguinamento totali, compresa la mortalità, secondo una nuova analisi post hoc dello studio AFIRE, pubblicata online su “JAMA Cardiology”.

Nel corso di un follow-up mediano di circa 2 anni, il tasso di morte, sanguinamento ed eventi trombotici – comprendente sia il primo che gli eventi successivi – è stato del 12,2% con rivaroxaban in monoterapia e del 19,2% con rivaroxaban più antipiastrinici. Rivaroxaban in monoterapia è stato associato in modo indipendente a un rischio inferiore dopo aver tenuto conto dei potenziali fattori confondenti (HR 0,62; IC 95% 0,48-0,80).

In genere, gli endpoint primari degli studi randomizzati si basano sui primi eventi e AFIRE non ha fatto eccezione. I principali risultati, riportati all’ESC 2019, hanno mostrato che rivaroxaban in monoterapia non era inferiore a rivaroxaban più terapia antipiastrinica quando si trattava di primo ictus, embolia sistemica, infarto del miocardio (IM), angina instabile che richiedeva rivascolarizzazione o morte per tutte le cause (4,14% vs 5,75% per paziente-anno; P < 0,001 per non inferiorità) e superiore in termini di prima emorragia maggiore definita dall’ISTH (1,62% vs 2,76% per paziente-anno; P = 0,01 per superiorità). La monoterapia ha anche ridotto il rischio di morte per tutte le cause.

“Less is more”
Ma guardare solo ai primi eventi non permette di cogliere il quadro clinico completo di un paziente, sostengono gli autori della presente analisi post hoc, guidati da Ryo Naito, della Juntendo University Graduate School of Medicine di Tokyo (Giappone), autore principale della nuova analisi post hoc.

I ricercatori osservano che i pazienti anziani con molteplici problemi di salute, come quelli arruolati in AFIRE, spesso assumono diversi farmaci e hanno maggiori probabilità di avere effetti avversi associati, come il sanguinamento.

Pertanto, nel contesto di una popolazione mondiale che sta invecchiando, «dobbiamo considerare di ridurre il regime di farmaci per le persone dell’attuale società» affermano Naito e colleghi. Il messaggio, in altri termini, è molto semplice: “less is more” (meno è meglio).

Bilanciamento dei rischi tra anticoagulanti e antipiastrinici
Come gestire il trattamento antitrombotico nei pazienti che hanno indicazioni sia per la terapia antipiastrinica che per l’anticoagulazione rimane un dilemma per i medici interessati a bilanciare i rischi trombotici e di sanguinamento. Negli ultimi anni, numerosi studi hanno esplorato varie combinazioni di antipiastrinici e anticoagulanti in pazienti con CAD stabile e AF, e alcuni gruppi hanno iniziato a emettere raccomandazioni.

Un ‘North American consensus statement’ aggiornato l’ultima volta nel 2021, per esempio, raccomanda una tripla terapia con un anticoagulante orale diretto, un inibitore P2Y12 e aspirina durante il periodo peri-intervento coronarico percutaneo (PCI) nei pazienti con AF sottoposti alla procedura, dopo di che l’aspirina deve essere interrotta.

Gli autori consigliano di interrompere del tutto la terapia antipiastrinica a 1 anno, con la possibilità di interruzione anticipata nei pazienti ritenuti a basso rischio ischemico o ad alto rischio di sanguinamento, nonché di un trattamento prolungato in pazienti selezionati ad alto rischio di eventi ischemici ricorrenti e basso rischio di sanguinamento.

I dati emersi dalla nuova analisi post hoc dello studio AFIRE
Lo studio AFIRE, condotto in 294 centri giapponesi, si è focalizzato su pazienti con AF e CAD stabile, definiti come almeno un anno di non avvenuto PCI o CABG (by-pass aorto-coronarico) o con CAD angiograficamente confermata che non richiedeva rivascolarizzazione.

Questa analisi post hoc che ha esaminato gli eventi totali ha incluso 2.215 pazienti (età media 74 anni; 79,1% uomini) che hanno avuto 348 eventi totali (morte, sanguinamento o trombosi) in un follow-up mediano di 24,1 mesi. Dopo un primo evento, gli eventi successivi avevano maggiori probabilità di essere correlati al sanguinamento rispetto alla trombosi.

Rivaroxaban in monoterapia ha ridotto i rischi sia dei primi eventi (di un 31% relativo) che degli eventi successivi (di un 54% relativo) rispetto a rivaroxaban più terapia antipiastrinica. Anche il tasso di mortalità è stato abbassato (HR 0,57 o 0,61 a seconda che la variabile dipendente dal tempo fosse una prima emorragia non fatale o un primo evento trombotico).

Tra coloro che hanno avuto un primo evento non fatale e successivamente sono deceduti, il rischio di mortalità era più alto dopo un’emorragia (75% con rivaroxaban in monoterapia e 62% con terapia di combinazione) rispetto a dopo un evento trombotico (25% e 38%, rispettivamente), «indicando che gli eventi emorragici sono clinicamente più incisivi degli eventi trombotici nei pazienti con AF e CAD stabile che ricevono agenti antitrombotici» scrivono Naito e colleghi.

Gli autori fanno notare che ricerche precedenti hanno dimostrato che il sanguinamento maggiore è una causa primaria di mortalità ospedaliera ed è associato a un rischio di morte a lungo termine. «Pertanto, la riduzione degli eventi emorragici può essere un fattore chiave per migliorare la prognosi nei pazienti con AF e CAD stabile, che era uno dei motivi per lo studio AFIRE» dicono i ricercatori.

Naito e colleghi aggiungono inoltre c’è necessità di ulteriori ricerche che esaminino quali variabili sono più importanti per valutare i rischi di sanguinamento e trombotici nei pazienti anziani in terapia antitrombotica, poiché i sistemi di punteggio esistenti non sono stati ben convalidati nei gruppi di età più avanzata.

Nell’editoriale sottolineata la necessità di una rivalutazione regolare
Questa analisi post hoc «conferma una visione ben nota che abbiamo, cioè che gli eventi emorragici sono in realtà molto impattanti» scrive Ying Gue, del Liverpool Heart & Chest Hospital dell’Università di Liverpool (Inghilterra), primo di tre autori di un editoriale di commento.

E questo evidenzia, proseguono, un dilemma che i medici affrontano quando decidono come rispondere a un’emorragia: se debbano ritirarsi dalla terapia antitrombotica per ridurre il rischio di sanguinamento, mantenerlo lo stesso o persino aumentare l’intensità a causa dell’alto rischio trombotico.

Qualunque sia la decisione presa, è importante rendersi conto che questa è «una valutazione dinamica», sostengono, con l’equilibrio dei rischi trombotici e di sanguinamento che si spostano nel tempo man mano che i pazienti acquisiscono nuove comorbilità e malattie.

«La raccolta di eventi totali evidenzia che come medici dobbiamo essere abbastanza coinvolti con il paziente dall’inizio alla fine, e questo significa una rivalutazione regolare», in particolare per i pazienti sul punto di essere ad alto rischio di sanguinamento o complicanze trombotiche, specificano.

In senso generale, tuttavia, nell’editoriale Gue e colleghi concordano con gli autori dello studio sul fatto che quando si tratta di terapia antitrombotica in pazienti con malattie complesse, «meno potrebbe significare meglio».

Bibliografia:
Naito R, Miyauchi K, Yasuda S, et al. Rivaroxaban Monotherapy vs Combination Therapy With Antiplatelets on Total Thrombotic and Bleeding Events in Atrial Fibrillation With Stable Coronary Artery Disease: A Post Hoc Secondary Analysis of the AFIRE Trial. JAMA Cardiol. 2022 Jun 15. doi: 10.1001/jamacardio.2022.1561. [Epub ahead of print] Link

Gue YX, Gorog DA, Lip GYH. Antithrombotic Therapy in Atrial Fibrillation and Coronary Artery Disease: Does Less Mean More? JAMA Cardiol. 2022 Jun 15. doi: 10.1001/jamacardio.2022.1572. [Epub ahead of print] Link