Tumore ovarico: beneficio eccezionale con rucaparib


Tumore ovarico: rucaparib, approvato da Ema ed Fda, è in grado di fornire un beneficio eccezionale, cioè una sopravvivenza libera da progressione (PFS) prolungata

Ovaio policistico (PCO) e sindrome dell’ovaio policistico (PCOS)

Il PARP-inibitore rucaparib, già approvato sia dall’Ema sia dall’Fda come terapia di mantenimento per le pazienti con recidiva platino sensibile di carcinoma ovarico, sia quelle portatrici di mutazioni di BRCA sia quelle con BRCA non mutato (wild-type), è in grado di fornire un beneficio eccezionale, cioè una sopravvivenza libera da progressione (PFS) prolungata, di almeno 2 anni, a oltre il 20% delle donne sottoposte al mantenimento con questo farmaco, inoltre, tale beneficio si riscontra in un ampio set di pazienti, indipendentemente dal tipo di mutazioni di BRCA (se presenti) e anche in pazienti con BRCA wild-type.

Lo rivela una recente analisi esplorativa dello studio ARIEL3, il trial registrativo di fase 3 grazie al quale rucaparib ha avuto, appunto, il via libera dalle agenzie regolatorie come trattamento di mantenimento per le pazienti con recidiva di carcinoma ovarico epiteliale ad alto grado, delle tube di Falloppio o peritoneale primario, che hanno risposto alla chemioterapia a base di platino.

Beneficio di rucaparib in un’ampia gamma di pazienti
Varie altre analisi recenti dello studio ARIEL3 e anche dello studio ARIEL2 (grazie al quale rucaparib è stato approvato come trattamento della recidiva platino-sensibile di carcinoma ovarico) hanno permesso di caratterizzare sempre meglio l’ampio spettro di efficacia di questo agente nel setting della recidiva, anche dal punto di vista traslazionale.

Per esempio un lavoro recente ha evidenziato che, nello studio ARIEL3, il mantenimento con rucaparib ha migliorato la PFS rispetto al placebo a prescindere dall’intervallo libero da progressione dopo la penultima terapia a base di platino, dal numero di precedenti chemioterapie effettuate dalla paziente e dall’eventuale trattamento precedente o meno con bevacizumab. Analogamente, in un’altra analisi dello stesso studio, rucaparib ha dimostrato un’efficacia significativa indipendentemente dal tipo di risposta (completa vs parziale) all’ultima chemioterapia a base di platino e dallo stato della malattia al basale (misurabile vs non misurabile ma valutabile vs assenza di residuo di malattia).

L’analisi sulle donne che ottengono un beneficio eccezionale dal mantenimento con rucaparib ha permesso di identificare anche alcune caratteristiche delle pazienti che ottengono tale risultato e ha evidenziato che questo si è ottenuto più comunemente, ma non esclusivamente, nelle donne con caratteristiche cliniche prognostiche più favorevoli (per esempio, una risposta completa all’ultima terapia a base di platino) e in quelle che presentavano meccanismi noti di sensibilità ai PARP-inibitori, come mutazioni dei geni BRCA1/2, RAD51C e RAD51D.

«Questi dati confermano sicuramente il valore di rucaparib come terapia di mantenimento per le pazienti con recidiva platino-sensibile di carcinoma ovarico e ancora una volta spingono la comunità degli oncologi a ricercare i fattori predittivi che permettano di identificare le pazienti in grado di rispondere meglio al trattamento con PARP-inibitori» ha detto ai microfoni di PharmaStar Alberto Farolfi, dell’IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori ‘Dino Amadori’ – IRST di Meldola (FC).

Un’altra analisi, condotta sugli studi ARIEL2 e ARIEL3, e pubblicata di recente su JAMA Oncology, ha permesso di ottenere informazioni importanti riguardo alla sicurezza di rucaparib, e in particolare di identificare una caratteristica genetica (una frequenza più elevata di specifiche alterazioni del gene TP53 prima del trattamento con il PARP-inibitore) che sembra essere associata al rischio di sviluppare neoplasie mieloidi dopo il trattamento con rucaparib.

«È un risultato importante dal punto di vista scientifico, perché sono state individuate alterazioni genetiche la cui presenza può predire lo sviluppo di neoplasie mieloidi nelle pazienti trattate con rucaparib; questo dato deve essere ora approfondito considerando anche altri PARP-inibitori, nonché farmaci di tipo diverso, come i chemioterapici derivati del platino, perché l’analisi suggerisce che anche un trattamento di lunga durata con questi agenti potrebbe essere associato a queste neoplasie. È necessario poi estendere queste analisi anche a neoplasie diverse dal tumore dell’ovaio, trattate sia con PARP-inibitori sia con altri tipi di agenti» ha dichiarato a PharmaStar Ugo De Giorgi, Direttore dell’Oncologia Clinica e Sperimentale-Terapie Innovative dell’IRCCS Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori ‘Dino Amadori’ – IRST di Meldola (FC).

«Le ricadute sulla pratica clinica di questo studio genetico sono potenzialmente notevoli, perché con queste analisi potremo sapere da prima di iniziare il trattamento quali sono le pazienti con maggiori probabilità di sviluppare neoplasie e, pertanto, le potremo gestire e monitorare in modo diverso rispetto a quelle con rischio più basso» ha aggiunto l’esperto.

Lo studio ARIEL 3
Lo studio ARIEL 3 è uno studio randomizzato e controllato di fase 3 in cui si è valutato il PARP-inibitore rucaparib verso un placebo come trattamento di mantenimento in oltre 560 pazienti con carcinoma ovarico di alto grado che hanno risposto all’ultima linea di terapia a base di platino, indipendentemente dallo stato mutazionale di BRCA.

Pubblicato nel 2017 su The Lancet Oncology, lo studio ha centrato il suo obiettivo primario, che era rappresentato dalla PFS. Infatti, il mantenimento con rucaparib ha dimostrato di migliorare in modo significativo la PFS rispetto al placebo, in tutti i sottogruppi valutati.

Nel gruppo di pazienti BRCA mutate, la PFS mediana è risultata di 16,6 mesi nel braccio trattato con rucaparib contro 5,4 mesi nel braccio di controllo (HR 0·23; IC al 95% 0,16-0,34; P < 0,0001), mentre nel gruppo di pazienti con deficit della ricombinazione omologa (HRD+) è risultata rispettivamente di 13,6 mesi contro 5,4 mesi (HR 0,32; IC al 95%0,24-0,42]; P < 0,0001) e nella popolazione intention-to-treat rispettivamente di 10,8 mesi contro 5,4 mesi (HR 0,36; P < 0,0001).

Grazie ai risultati di questo studio, rucaparib è stato approvato come terapia di mantenimento per le donne con carcinoma ovarico recidivato che hanno risposto all’ultima terapia a base di platino nell’aprile 2018 dalla Food and Drug Administration e nel dicembre dello stesso anno dalla European Medicines Agency.

Oltre il 20% di donne ottiene beneficio eccezionale con rucaparib
Analisi esplorative recenti dello studio ARIEL3 hanno evidenziato, tuttavia, che ci sono donne che ottengono un beneficio particolarmente pronunciato dal mantenimento con rucaparib.

Per queste analisi i ricercatori hanno confrontato le caratteristiche cliniche di base e quelle molecolari (alterazioni genomiche e alterazioni epigenomiche, come la metilazione del promotore di BRCA1) delle pazienti che hanno ottenuto un beneficio eccezionale da rucaparib (cioè una PFS ≥ 2 anni) e di quelle che, invece, sono andate in progressione molto rapidamente (quelle, cioè, che mostravano già segni di progressione al primo imaging di controllo, a circa 12 settimane), in entrambi due bracci dello studio.

Innanzitutto, le pazienti che hanno raggiunto una PFS ≥ 2 anni sono state oltre 10 volte più numerose nel braccio trattato con rucaparib rispetto al braccio di controllo: 21,1% (79 su 375) contro 2,1%. Inoltre, all’interno del gruppo di pazienti che hanno ottenuto un beneficio eccezionale, il 6,9% (26 su 375) nel braccio rucaparib ha ottenuto una PFS addirittura superiore ai 4 anni, contro solo lo 0,5% (una su 189) nel braccio di controllo.

Nel sottogruppo di pazienti con una PFS ≥ 2 anni, la PFS mediana è risultata di 41,9 mesi (range: 24,2-67,2) nel braccio trattato con il PARP-inibitore contro 37,1 mesi (27,4-66,0) nel braccio di controllo.

È importante sottolineare che fra le pazienti del braccio rucaparib che hanno derivato un beneficio eccezionale dal trattamento, la stragrande maggioranza, l’86,1% (68 su 79) ha mostrato nello studio ARIEL3 una PFS dopo il trattamento con il PARP-inibitore più lunga rispetto al penultimo intervallo libero da platino (PPFI) Inoltre, la mediana della differenza tra PFS e PPFI è risultata molto superiore nel braccio rucaparib rispetto al braccio placebo: 21,3 mesi rispetto a 0,4 mesi.

Beneficio prolungato di PFS più comune con caratteristiche prognostiche più favorevoli
Nel braccio trattato con rucaparib, un beneficio eccezionale di PFS si è ottenuto più frequentemente, ma non esclusivamente, in presenza di caratteristiche cliniche prognostiche più favorevoli.

Infatti, nel sottogruppo che ha ottenuto una PFS eccezionalmente prolungata, il 73,4% aveva una malattia non misurabile (a fronte del 40,6% nel gruppo andato incontro a una rapida progressione; P < 0,001) , il 39,2% aveva avuto una risposta completa all’ultima terapia con platino effettuata (contro il 20,3% nel gruppo andato incontro a rapida progressione; P = 0,018) e il 69,6% aveva avuto un PPFI superiore ai 12 mesi (contro il 46,9% nelle pazienti progredite rapidamente; P = 0,007).

Beneficio prolungato di PFS più frequente in presenza di sensibilità nota ai PARP-inibitori
Per quanto riguarda le alterazioni genetiche, le analisi hanno evidenziato che il beneficio eccezionale di PFS si è ottenuto più frequentemente, ma – è importante sottolinearlo – non esclusivamente in presenza di meccanismi noti di sensibilità ai PARP-inibitori, tra cui le mutazioni di BRCA1/2 e dei geni RAD51C e RAD51D.

Nel braccio trattato con rucaparib, i ricercatori hanno riscontrato un maggior numero di pazienti con mutazioni di BRCA nel sottogruppo che ha ottenuto un beneficio prolungato di PFS dal farmaco rispetto al sottogruppo progredito rapidamente (58,2% contro 41,8%%).

Sempre nel braccio sperimentale, nelle pazienti con BRCA wild-type è stata riscontrata un’associazione significativa fra il beneficio eccezionale di PFS e la presenza di mutazioni di RAD51C e RAD51D. «Le pazienti che hanno beneficiato maggiormente del trattamento con rucaparib sono quelle che presentavano alterazioni dei geni RAD51, a suggerire che i meccanismi di riparazione del DNA possono rappresentare un fattore predittivo del beneficio del trattamento con il PARP-inibitore» ha osservato Farolfi.

Al contrario, le pazienti con bassa LOH (perdita di eterozigosi, indice di probabile funzionamento normale del sistema di riparazione dei danni del DNA mediante ricombinazione omologa) sono risultate più rappresentate nel sottogruppo andato incontro a rapida progressione, a suggerire che le pazienti senza evidenze di deficit della ricombinazione omologa (HRD) hanno minori probabilità di ottenere un beneficio duraturo dal mantenimento con rucaparib.

I trend sono risultati simili nel braccio placebo.

Nel gruppo con beneficio eccezionale, profilo di sicurezza di rucaparib in linea con quello nella popolazione generale
Sul fronte della sicurezza e tollerabilità, tra i pazienti trattati con rucaparib, i tassi di incidenza degli eventi avversi più comuni sono risultati generalmente coerenti nel sottogruppo che ha ottenuto un beneficio eccezionale dal trattamento e la popolazione complessiva dello studio ARIEL3. «In genere non si è osservato un aumento delle tossicità nelle pazienti che ottenuto un beneficio prolungato da rucaparib, il profilo di sicurezza è risultato comparabile a quello osservato nella popolazione generale dello studio ARIEL3» ha detto Farolfi.

Si è verificata una maggiore incidenza di alcuni parametri relativi alla sicurezza (per esempio i cambiamenti di dosaggio dovuti ai TEAE) nel sottogruppo che ha ottenuto un beneficio eccezionale dal PARP-inibitore rispetto alla popolazione complessiva, dato che può essere attribuito al periodo di tempo prolungato durante il quale le pazienti sono rimaste in trattamento.

Nel sottogruppo che ha ottenuto un beneficio eccezionale dal trattamento, la maggior parte delle pazienti trattate con rucaparib (il 72,2%) ha richiesto almeno una riduzione del dosaggio e il 41,8% ne ha richieste almeno due.

Correlazione tra rischio di mielodisplasie e durata del trattamento ancora incerta
Gli studi effettuati fino ad oggi con i PARP-inibitori hanno suggerito che l’esposizione a questi farmaci possa essere associata a un aumento del rischio di neoplasie mieloidi correlate alla terapia (t-MNs), in particolare la sindrome mielodisplastica (MDS) o leucemia mieloide acuta (LMA). Tuttavia, la correlazione fra tale rischio e il tempo nel quale la paziente resta in trattamento non è chiara, anche a causa dell’effetto confondente dei trattamenti precedenti e successivi e del beneficio di sopravvivenza associato al mantenimento con il PARP-inibitore.

«Non è chiaro, finora, se questa correlazione sia legata in tutto e per tutto all’impiego dei PARP-inibitori o possa essere funzione anche della durata del trattamento e anche di caratteristiche delle pazienti, nonché del tipo di terapie effettuate prima o dopo i PARP-inibitori, quindi una maggiore caratterizzazione di questo aspetto è necessaria» ha osservato De Giorgi.

Dei 14 casi di MDS/LMA segnalati nelle pazienti trattate con rucaparib nello studio ARIEL3 fino al 19 dicembre 2020 (incidenza del 3,7%, contro 2,1% nel braccio di controllo), 9 si sono verificati nel gruppo che ha tratto un beneficio eccezionale dal trattamento con il PARP-inibitore (tre durante il trattamento e sei durante il follow-up a lungo termine). Inoltre, di questi 9 casi, sette si sono sviluppati in pazienti BRCA-mutate e i restanti due in pazienti con BRCA wild-type.

Migliore caratterizzazione del rischio genetico di mielodisplasie
La causa di queste t-MNs è ancora sconosciuta, ma si sa che le cosiddette varianti CHIP possono aumentare il rischio neoplasie mieloidi maligne primarie e sono più frequenti tra i pazienti con tumori solidi. L’acronimo CHIP sta per emopoiesi clonale di potenziale indeterminato e identifica la presenza di emopoiesi clonale con mutazioni somatiche in geni associati allo sviluppo di neoplasie mieloidi, presenti nel sangue periferico e/o nel midollo osseo con una frequenza ≥ 2% di variante allelica in soggetti senza nessuna diagnosi ematologica. «Le varianti CHIP sono in pratica alterazioni genetiche di tipo somatico rilevabili in particolare nei linfociti, la cui presenza può associarsi allo sviluppo di neoplasie mieloidi. I geni implicati sono spesso coinvolti nel riparo del DNA e in altre funzioni che possono avere un ruolo, appunto, nello sviluppo di queste neoplasie» ha spiegato De Giorgi.

Partendo da questo presupposto, alcuni ricercatori hanno effettuato uno studio retrospettivo di associazione genetica, pubblicato di recente su JAMA Oncology, nel quale hanno provato a valutare se la presenza di varianti CHIP rilevate nelle cellule del sangue periferico prima del trattamento con rucaparib sia associate al rischio di sviluppare t-MNs dopo il trattamento con il PARP-inibitore nelle pazienti con carcinoma ovarico.

In particolare, gli autori hanno analizzato campioni di sangue periferico di pazienti che avevano partecipato agli studi ARIEL2 e ARIEL3, di cui 20 avevano sviluppato t-MNs (casi) e 44 no (controlli) e hanno analizzato la presenza di varianti di CHIP mediante next-generation sequencing. Inoltre, hanno effettuato analisi longitudinali su campioni disponibili di pazienti dello studio ARIEL2, raccolti durante il trattamento e alla fine del trattamento.

«In pratica, i ricercatori hanno valutato se la presenza di queste anomalie genetiche prima di iniziare il trattamento con rucaparib era associata a una maggiore incidenza di queste neoplasie mieloidi e se tali alterazioni variavano durante il trattamento con il PARP-inibitore» ha spiegato De Giorgi.

Possibile associazione tra varianti CHIP con alterazioni di TP53 e sviluppo di neoplasie mieloidi legate alla terapia
«I risultati ottenuti sono sicuramente importanti, perché sono state rilevate alcune varianti CHIP, in particolare quelle con alterazioni del gene TP53 – il gene che più spesso presenta alterazioni nel tumore dell’ovaio, fino al 95% dei casi – che sembrano mostrare un’associazione con lo sviluppo di neoplasie mieloidi nelle pazienti trattate con rucaparib. Il 4% delle pazienti trattate con il PARP-inibitore che presentavano tali anomalie ha sviluppato una di queste neoplasie contro l’1% fra coloro che non le presentavano» ha riferito De Giorgi.

Inoltre, le analisi genetiche hanno evidenziato che la prevalenza di varianti CHIP di TP53 con una frequenza allelica della variante ≥ 1% nelle cellule del sangue periferico prima del trattamento era significativamente più alta nelle pazienti che hanno sviluppato t-MNs dopo la terapia con rucaparib rispetto a quelle che non hanno sviluppato queste neoplasie (9 [45%] su 20 casi vs 6 [13,6%] su 44 controlli, P = 0,009); la prevalenza di tali varianti è risultata anche associata alla lunghezza della precedente esposizione alla chemioterapia a base di platino.
«Un altro dato rilevante è che queste varianti CHIP sono risultate molto più comuni nelle pazienti esposte per lungo tempo a derivati del platino, chemioterapici che si impiegano prima del trattamento con i PARP-inibitori, e anche questo è un parametro importante dal punto di vista clinico, perché si è visto che la durata dei trattamenti precedenti può essere predittiva dello sviluppo di una sindrome mielodisplastica o di una leucemia mieloide acuta» ha rimarcato l’esperto.

Le analisi longitudinali hanno anche evidenziato un’espansione delle varianti CHIP di TP53 preesistenti nelle pazienti che hanno sviluppato t-MNs.

I risultati dello studio, cconcludono, quindi, gli autori, suggeriscono che le varianti CHIP con alterazioni di TP53 preesistenti e con una frequenza allelica della variante ≥ 1% nelle cellule del sangue periferico potrebbero essere associate allo sviluppo di t-MNs dopo il trattamento con rucaparib.

Prospettive future di rucaparib
La ricerca su rucaparib non si limita, comunque, al setting della recidiva di carcinoma ovarico.

Nel tumore dell’ovaio lo sviluppo del farmaco continua anche in fasi più precoci dell’iter di cura. Infatti rucaparib è attualmente in fase di valutazione nello studio di fase 3 ATHENA (in monoterapia e in combinazione con nivolumab) come terapia di mantenimento dopo la chemioterapia di prima linea a base di platino nelle pazienti con carcinoma ovarico di nuova diagnosi, e c’è molta attesa per i risultati di questo trial.

Inoltre, si sta sviluppando il farmaco anche come trattamento per il carcinoma della prostata. Nel maggio 2020, rucaparib ha ricevuto un’approvazione accelerata da parte dell’Fda come trattamento per pazienti adulti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione metastatico (mCRPC) associato a mutazioni deleterie di BRCA (germinali e/o somatiche), già trattati con una terapia anti-androgenica e un taxano. L’approvazione si è basata sui risultati dello studio multicentrico di fase 2 a singolo braccio, in aperto, TRITON2. Attualmente è in corso anche lo studio di fase 3 TRITON3, che è un trial di conferma del beneficio clinico di rucaparib nei pazienti con mCRPC.

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