Scoperti i più antichi resti fossili di archeobatteri metanogeni


In un sito Unesco del Sudafrica scoperti i più antichi resti fossili di archeobatteri metanogeni, microrganismi vissuti 3.42 miliardi di anni fa

archeobatteri metanogeni

C’è un luogo sul nostro pianeta dove si trova uno fra i più antichi complessi geologici al mondo. Un luogo in cui le rocce presenti, di origine vulcanica e sedimentaria, raccontano com’era la Terra tra i 3.2 e i 3.6 miliardi di anni fa. Stiamo parlando della Cintura di rocce verdi di Barberton: un’area situata in Sudafrica, dal 2018 inserita nella World Heritage List dell’Unesco – la lista dei siti patrimonio dell’umanità.

Si tratta di un ambiente con caratteristiche chimico-fisiche uniche, e per questo ideale per studi di astrobiologia, volti alla ricerca di forme di vita esistite molto tempo fa, quando la Terra era molto giovane. Ed proprio conducendo simili studi che un team internazionale di ricercatori guidati dall’Università di Bologna, analizzando campioni di roccia prelevati sul sito, ha scoperto i più antichi resti mai individuati di batteri metanogeni, microorganismi ancestrali in grado di convertire idrogeno molecolare e anidride carbonica in metano attraverso un processo noto come metanogenesi. Una scoperta che espande le frontiere degli ambienti potenzialmente abitabili sulla Terra primordiale e su altri pianeti, come ad esempio Marte.

Secondo quanto riportato nell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato ieri su Science Advances, si tratterebbe di archeobatteri vissuti 3.42 miliardi di anni fa in un sistema di venule scavate nella roccia dall’attività di sorgenti idrotermali – ambienti in cui l’interazione dell’acqua dei fondali marini con l’acqua calda riscaldata da attività vulcaniche crea le condizioni adatte per la vita di diversi microrganismi.

«Abbiamo trovato prove eccezionalmente ben conservate di fossili di microbi che sembrano aver prosperato lungo le pareti di cavità create dall’acqua calda dei sistemi idrotermali presenti a pochi metri sotto il fondale marino», spiega Barbara Cavalazzi, geologa e astrobiologa dell’Università di Bologna e prima autrice dello studio. «Questi habitat  sottosuperficiali, riscaldati dall’attività vulcanica, hanno probabilmente ospitato alcuni dei primi ecosistemi microbici della Terra, e questo è l’esempio più antico che abbiamo trovato fino a oggi».

Che si tratti proprio di resti fossilizzati di batteri lo suggeriscono le analisi chimiche che i ricercatori hanno condotto su strutture filamentose, simili a un biofilm, rinvenuti in due sottili strati delle rocce esaminate. I risultati mostrano che i filamenti includono la maggior parte degli elementi strutturali necessari per la vita: un rivestimento esterno ricco di carbonio, coerente con una parete cellulare o con ciò che resta della extracellular polymeric substance, sostanze secrete dai microrganismi nel loro ambiente e considerate il ​​componente fondamentale che determina le proprietà fisico-chimiche di un biofilm; e una struttura centrale chimicamente distinta che potrebbe essere materia citoplasmatica condensata.

Che siano, più nello specifico, archeobatteri metanogeni lo indica invece la presenza nei filamenti di composti organici del nichel, un cofattore di enzimi ​​coinvolti nel metabolismo del metano, la molecola organica che, come accennato, questi microorganismi producono e usano come fonte di “cibo”. Le concentrazioni di nichel misurate nei filamenti, spiegano i ricercatori, sono simili a quelle trovate nei metanogeni che oggi popolano alcuni ambienti estremi del nostro pianeta.

La specifica combinazione del sito in cui sono stati osservati, la loro complessità morfologica nelle tre dimensioni, la loro natura cherogena (il cherogene è una miscela di composti chimici prodotta dalla decomposizione di materia organica), le ultrastrutture osservate spettroscopicamente e la loro specifica firma metallo-organica, aggiungono i ricercatori, escludono possa trattarsi di pseudofossili abiotici, cioè strutture prodotte da processi fisici e chimici naturali, dunque di natura non biologica, che assomigliano però a fossili di primitive forme di vita.

«Sappiamo che gli archeobatteri possono subire la fossilizzazione, tuttavia abbiamo pochi esempi esempi diretti», conclude Cavalazzi. «Le nostre scoperte potrebbero estendere, per la prima volta, la registrazione di fossili di Archaea fino all’epoca in cui la vita è emersa sulla Terra».

Per saperne di più: