Lampi gamma: risolto un enigma decennale


Scienziati hanno derivato le proprietà del campo magnetico in un lontano Gamma Ray Burst dopo soli 90 secondi dall’esplosione

Scienziati hanno derivato le proprietà del campo magnetico in un lontano Gamma Ray Burst dopo soli 90 secondi dall'esplosione

buchi neri si formano quando stelle massicce – la cui massa è almeno 40 volte quella del Sole – terminano la loro vita con un’esplosione catastrofica che alimenta una gigantesca onda d’urto che si propaga nello spazio. Questi eventi estremamente energetici espellono materiale a velocità vicine a quella della luce e alimentano luminosi lampi di raggi gamma di breve durata – chiamati Gamma Ray Bursts (Grb) – che possono essere rilevati dai satelliti in orbita attorno alla Terra.

I campi magnetici possono essere convogliati attraverso il materiale espulso e, quando si forma il buco nero rotante, si attorcigliano come cavatappi e si pensa siano in grado di collimare e accelerare il materiale stesso. Sebbene i campi magnetici non possono essere visti direttamente, la loro firma è racchiusa nella luce prodotta dalle particelle cariche (elettroni) che spiraleggiano velocemente attorno alle linee di forza del campo magnetico. I telescopi terrestri catturano questa luce, che ha viaggiato per milioni di anni, e attraverso lo studio delle sue proprietà è possibile svelare i segreti dei fenomeni fisici che l’hanno emessa. «Abbiamo misurato una proprietà speciale della luce – la polarizzazione – per sondare direttamente le proprietà fisiche del campo magnetico che alimenta l’esplosione», spiega Carole Mundell, esperta di Grb e coautrice dello studio che vede la collaborazione anche di due italiani – Cristiano Guidorzi dell’Università di Ferrara (associato Inaf) e Marco Marongiu dell’Inaf Osservatorio astronomico di Cagliari.

La sfida è quella di catturare la luce il prima possibile dopo l’esplosione per comprendere la fisica dell’esplosione stessa. La teoria prevede infatti che tutti i campi magnetici vengono distrutti quando il fronte d’urto in espansione si scontra con i detriti stellari circostanti. In accordo con questo modello, subito dopo l’esplosione – quando il campo magnetico su larga scala è ancora intatto e guida il deflusso – la luce dovrebbe presentare alti livelli di polarizzazione (maggiore del 10 per cento). Successivamente, dovrebbe essere per lo più non polarizzata poiché il campo magnetico viene “strapazzato” nella collisione.

Il team della Mundell fu il primo a scoprire luce altamente polarizzata a pochi minuti dall’esplosione di una stella, confermando la presenza di campi primordiali con una struttura su larga scala. Ma il quadro per spiegare l’espansione degli shock si è rivelato assai controverso. I team che hanno osservato i Grb in tempi più lenti, da ore a un giorno dopo l’esplosione, hanno riscontrato una bassa polarizzazione e hanno concluso che i campi magnetici erano stati distrutti da tempo, sebbene non siano stati in grado di dire da quanto tempo o come. Al contrario, un team di astronomi giapponesi ha annunciato di aver rilevato luce polarizzata del 10 per cento in un Grb.

«Queste rare osservazioni sono sempre state difficili da confrontare, poiché hanno sondato tempistiche e fisica molto diverse. Non c’è modo di riconciliarle nel modello standard», spiega Núria Jordana-Mitjans dell’Università di Bath, prima autrice del nuovo studio. Il mistero è rimasto irrisolto per oltre un decennio, fino all’analisi del Grb 141220a, presentata in un nuovo articolo appena pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Nello studio, il team di ricercatori riporta la scoperta di una polarizzazione molto bassa nella luce emessa dal fronte di shock rilevata appena 90 secondi dopo l’esplosione del Grb 141220a. Le osservazioni estremamente rapide sono state possibili grazie all’utilizzo del telescopio robotico Liverpool, completamente autonomo, e dal nuovo polarimetro Ringo3, lo strumento che ha registrato il colore, la luminosità, la polarizzazione e la velocità con cui il Grb si è dissolto. Mettendo insieme questi dati, il team è stato in grado di dimostrare che la luce ha avuto origine dal fronte avanzato dell’onda d’urto, che le scale del campo magnetico erano molto più piccole di quanto dedotto dal team giapponese e che l’esplosione è stata probabilmente alimentata dal collasso dei campi magnetici ordinati nei primi momenti della formazione di un nuovo buco nero. Ma vediamo il dettaglio della scoperta insieme ai due ricercatori italiani coinvolti nello studio, che Media Inaf ha raggiunto per l’occasione.

«In questo lavoro siamo riusciti ad ottenere informazioni sulla polarizzazione ottica dall’afterglow di Grb 141220a, osservato dopo appena 2 minuti dall’esplosione del Grb stesso, grazie al polarimetro ottico Ringo3 posizionato sul telescopio robotico Liverpool nelle isole Canarie, in Spagna», racconta Marco Marongiu. «Un primo sguardo alle curve di luce alle frequenze ottiche di questo Grb sembrava suggerire un classico afterglow – radiazione originata dall’interazione tra la materia espulsa dal Grb e il mezzo circostante – rilevato in tempi scala di ore/giorni dopo l’esplosione. Uno sguardo più attento ai dati del Liverpool Telescope ha però mostrato che questo afterglow era brillante al momento delle osservazioni di polarizzazione già a partire da 2 minuti dopo l’esplosione. Tutto ciò permette di fornire informazioni su questo Grb – come, ad esempio, le caratteristiche del campo magnetico della materia espulsa dal Grb, l’energetica dell’esplosione e le proprietà del mezzo che circonda il Grb – già nelle prime fasi della sua esistenza. Questo tipo di analisi è molto prezioso perché richiede osservazioni nell’ottico dopo sole poche decine di secondi dall’esplosione del Grb, e ad oggi non sono tanti i lavori di questo tipo».

«La nostra analisi», continua Marongiu, «suggerisce che, nei primi minuti dopo l’esplosione, il forward shock (ossia lo shock che si propaga in direzione del mezzo che circonda il Grb) è debolmente polarizzato (circa il 3 percento), con un valore di polarizzazione che non supera il 5 per cento almeno fino a 12 minuti dopo l’esplosione. Questa debole polarizzazione suggerisce che essa può essere originata da diversi fattori: le proprietà della polvere galattica e della galassia ospite, un reverse shock (ossia lo shock che si propaga in direzione della materia espulsa dal Grb) polarizzato, o ancora la polarizzazione intrinseca del forward shock stesso».

«Lo spettro e l’andamento del flusso nel tempo mostrato da questo Grb sono quanto di più classico ci si possa aspettare dalla teoria standard degli afterglow dei Grb», spiega Cristiano Guidorzi. «La radiazione visibile è dovuta al mezzo interstellare scioccato dall’onda d’urto relativistica del getto emesso dal Grb ed è descrivibile come radiazione di sincrotrone degli elettroni accelerati dallo shock e dal campo magnetico creato localmente allo shock stesso e amplificato attraverso qualche meccanismo, come ad esempio turbolenza associata a disomogeneità della densità del mezzo interstellare. La misura di polarizzazione ottica ottenuta a partire da pochissimi minuti dall’evento indica un grado di polarizzazione relativamente basso di pochi percento (2.8,-1.6,+2.0 per cento): questo conferma il fatto che la lunghezza di coerenza del campo magnetico generato localmente allo shock è compatibile con quanto ci si aspetta dalla teoria classica dell’afterglow di Grb. Questo risultato è importante alla luce di un’altra misura, apparentemente in contraddizione con la nostra, ottenuta su un altro Grb per molti aspetti simile, Grb 091208b (Uehara et al. 2012) per il quale il grado di polarizzazione osservato era stato attorno al 10 per cento (10.4 ± 2.5). Un modo per spiegare entrambe le osservazioni è che quest’ultimo era caratterizzato da lunghezze di coerenza del campo magnetico maggiori per il contributo di un’altra componente, assente nel nostro caso o comunque trascurabile, dovuto al mezzo stesso espulso dal getto».

Lo studio appena pubblicato, basato sul fatto che i Grb più potenti possono essere alimentati da campi magnetici ordinati su larga scala, dimostra l’efficacia dei telescopi robotici in grado di osservare velocemente il loro caratteristico segnale di polarizzazione prima che vada perso nell’esplosione. «Ora dobbiamo spingere le frontiere della tecnologia per sondare i primi momenti di queste esplosioni, avere numeri statisticamente significativi di esplosioni per studi di polarizzazione e inserire la nostra ricerca nel contesto più ampio di un follow-up multimessaggero in tempo reale dell’universo estremo», conclude Mundell.

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