Osteoporosi: nuovo studio sul romosozumab


Osteoporosi e romosozumab: le pazienti naive al trattamento rispondono meglio e precocemente secondo un nuovo studio giapponese

Osteoporosi e romosozumab: le pazienti naive al trattamento rispondono meglio e precocemente secondo un nuovo studio giapponese

Nelle pazienti affette da osteoporosi (OP) in postmenopausa, gli effetti precoci del romosozumab a 6 mesi sulla densità minerale ossea (DMO) della colonna lombare sono influenzati in modo significativo dalla differenza di trattamento pregresso e sono predetti anche dalle variazioni precoci dei marker di turnover osseo.

Queste le conclusioni di uno studio osservazionale non randomizzato giapponese, di recente pubblicazione su Bone, che potrebbero contribuire, se confermate in studi successivi, all’ottimizzazione della terapia in queste pazienti.

Razionale e disegno dello studio
Romosozumab, anticorpo monoclonare anti-sclerostina, è un farmaco innovativo anti-OP, in grado di aumentare la formazione ossea e, in misura minore, ridurre i processi di riassorbimento osseo. “In ragione di questa duplice azione peculiare – spiegano i ricercatori nell’introduzione allo studio – si ritiene che la finestra anabolica (ovvero la differenza tra i processi di formazione ossea e quelli di riassorbimento osseo), che determina l’effetto “netto” del trattamento, sia più ampia con questo farmaco rispetto alle altre opzioni terapeutiche disponibili per il trattamento dell’OP”.

Sulla base di queste considerazioni, i ricercatori hanno voluto saggiare la fondatezza dell’ipotesi di una ridotta risposta al romosozumab nelle pazienti con OP precedentemente sottoposte a trattamento antiriassorbitivo.

Per fare ciò, hanno preso in considerazione 130 pazienti con OP in postmenopausa, provenienti da diversi centri dislocati sul territorio del Giappone, che erano passate a trattamento con romosozumab con o senza trattamento pregresso per l’OP (37 pazienti naive alla terapia, 33 in terapia pregressa con bisfosfonati (BSF), 45 con denosumab e 15 con teriparatide).

Le pazienti avevano un’età media pari a 75 anni e sono state sottoposte a valutazione, a 6 mesi, della DMO e dei livelli sierici di alcuni marker di turnover osseo.

Risultati principali
Dopo 6 mesi, i ricercatori hanno osservato un incremento della DMO a livello della colonna lombare pari al 13,6% nelle pazienti naive al trattamento, al 7,5% in quelle sottoposte a trattamento pregresso con BSF, al 3,6% in quelle trattate precedentemente con denosumab, e all’8,7% in quelle trattate con teriparatide (p<0,001 tra gruppi).

La DMO a livello del collo del femore, inoltre, è aumentata, rispettivamente, del 4,2%, 9,4%, 1,6% e 1,5% nei gruppi di pazienti sopra citati.

Passando ai marker di riassorbimento osseo, le variazioni dei livelli di PINP (propeptide N terminale del procollagene tipo 1, un marcatore di formazione ossea)  dal basale ad un mese sono state le seguenti:
– Da 72,7 a 139 µg/l per le pazienti naive al trattamento per l’OP
– Da 33,5 a 85,4 µg/l per le pazienti sottoposte a trattamento pregresso con BSF
– Da 30,4 a 54,3 µg/l per quelle sottoposte a trattamento pregresso con denosumab
– Da 98,4 a 107,4 µg/l per quelle trattate precedentemente con teriparatide

Invece, le variazioni dei livelli di TRAP-5b (isoforma 5b della fosfatasi acida resistente al tartrato, un marcatore di riassorbimento osseo) dal basale ad un mese sono state:
– Da 474,7 a 270,2 mU/dl per le pazienti naive al trattamento per l’OP
– Da 277,3 a 203,7 mU/dl per le pazienti sottoposte a trattamento pregresso con BSF
– Da 220,3 a 242 mU/dl per quelle sottoposte a trattamento pregresso con denosumab
– Da 454,1 a 313 mU/dl per quelle trattate precedentemente con teriparatide

I ricercatori hanno anche effettuato un’analisi di regressione multivariata, individuando nella differenze di trattamento pregresso e nelle variazioni dei marker metabolici ossei ad un mese dei predittori indipendenti di variazione densitometrica a livello della colonna lombare.

Implicazioni e limiti dello studio
Nel commentare i risultati, i ricercatori hanno sottolineato la novità del loro lavoro, “…il primo – a loro conoscenza – ad aver dimostrato le influenze del trattamento pregresso e il ruolo di alcuni fattori predittori sull’efficacia del romosozumab in pazienti affette da OP post-menopausale”.

Dai risultati è emerso come il trattamento pregresso con farmaci antiriassorbitivi sia in grado di attenuare la risposta precoce al trattamento con romosozumab e come tale risposta possa essere predetta dalle variazioni precoci dei marker relativi al metabolismo osseo.

Lo studio, tuttavia, per ammissione degli stessi autori, è gravato da alcuni limiti metodologici intrinseci, quali il numero ridotto di pazienti considerati, il potere statistico dei risultati: con riferimento alle pazienti sottoposte precedentemente a trattamento con teriparatide, si segnala la durata ridotta del trattamento (media: 10,7 mesi) e le modalità di somministrazione differenti (settimanale e mensile). Quanto alle pazienti sottoposte a trattamento pregresso con BSF, si segnala l’eterogeneità dei farmaci usati (per os o endovena, con timing di somministrazione differenti).

Ma il difetto più grande di questo studio è il disegno osservazionale e non randomizzato (per cui le differenze di background delle pazienti potrebbero avere avuto effetti sulla selezione del trattamento da parte dei medici prescrittori).

Di qui la necessità di avere conferme al più presto di quanto osservato grazie al disegno di trial clinici randomizzati e dimensionati ad hoc, caratterizzati anche da periodi di follow-up più lunghi.

Riferimenti bibliografici

Ebina K et al. Effects of prior osteoporosis treatment on early treatment response of romosozumab in patients with postmenopausal osteoporosis. Bone 2020 Leggi