Neuromielite ottica: dati positivi per inebilizumab


Neuromielite ottica: incoraggianti benefici grazie al trattamento con inebilizumab secondo un nuovo studio presentato a West Palm Beach, in Florida

Neuromielite ottica, risultati positivi di efficacia e sicurezza in fase 3 per satralizumab secondo un nuovo studio pubblicato sul "New England Journal of Medicine"

Secondo uno studio presentato a West Palm Beach, in Florida, in occasione del 5° Americas Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis (ACTRIMS) Forum 2020, nei pazienti con disturbo dello spettro della neuromielite ottica (NMOSD), inebilizumab – rispetto al placebo – riduce sia il rischio di attacchi e peggioramento della disabilità, sia il numero di ricoveri e nuove lesioni alla risonanza magnetica (RM).

L’efficacia del farmaco per la neuromielite ottica si è mantenuta per un anno nel corso dello studio e il trattamento ha evidenziato un profilo di sicurezza accettabile. «Numerose linee di evidenza suggeriscono che la neuromielite ottica (NMO) è prevalentemente un disturbo mediato dalle cellule B» ha ricordato il primo autore, Bruce Cree, professore di Neurologia presso il Weill Institute for Neurosciences della University of California di San Francisco.

Dal MoAb anti-CD19 derivano deplezione di cellule B e minore attività infiammatoria 
«Inebilizumab (anticorpo monoclonale anti-CD19) diminuisce le cellule B e riduce l’attività della malattia infiammatoria nella NMO potenzialmente alterando i network immunitari che dipendono dalle cellule B per la produzione di citochine o la presentazione dell’antigene» ha spiegato Cree.

I ricercatori hanno condotto uno studio randomizzato e controllato, denominato “N-MOmentum”, per caratterizzare l’efficacia e la sicurezza a lungo termine di inebilizumab nei pazienti con neuromielite ottica.

Cree e colleghi hanno randomizzato i pazienti con NMOSD a inebilizumab o placebo in monoterapia in un rapporto 3: 1 per 6,5 mesi. L’esito primario dello studio è stato il tempo al primo attacco aggiudicato.

I pazienti che hanno avuto un attacco aggiudicato o hanno completato la sperimentazione potevano poi ricevere inebilizumab in un’estensione in aperto, attualmente in corso.
Lo studio è stato condotto in 99 siti centri in 25 paesi. Complessivamente, 230 pazienti sono stati randomizzati e assegnati ai due gruppi (174 hanno ricevuto inebilizumab e 56 hanno ricevuto placebo).

Circa il 91% della popolazione era acquaporina-4-IgG-positiva (AQP4-IgG+) e il 91% era di sesso femminile. L’età media della popolazione al basale era di 43 anni. Il punteggio mediano della Expanded Disability Status Scale al basale era di circa 3,5 e l’intervallo era compreso tra 0 e 8,0. Circa il 50% dei partecipanti era bianco, il 20% asiatico e il 9% di origine africana. «Il profilo demografico è simile a quello di molti studi pubblicati» secondo Cree.

Studio interrotto precocemente per chiara evidenza di efficacia
A causa della chiara evidenza di efficacia, il comitato indipendente di monitoraggio dei dati ha raccomandato di interrompere precocemente lo studio. Nello studio randomizzato e controllato, infatti, inebilizumab ha ridotto il rischio di attacchi del 77,3% nei pazienti AQP4-IgG+ e del 72,8% nella popolazione totale. Il numero necessario da trattare (number-need-to-treat, NTT) per 6,5 mesi per prevenire un attacco era di 3,2 per il gruppo AQP4-IgG+ e 3,7 per la popolazione totale.

Inoltre, come accennato, inebilizumab ha ridotto significativamente il rischio di peggioramento della disabilità, il numero di nuove lesioni RM e i ricoveri ospedalieri correlati alla NMOSD. Dopo 1 anno di trattamento con inebilizumab, l’85% dei pazienti era libero da un attacco NMOSD.

Dalle analisi di sicurezza emerge un accettabile profilo di tollerabilità
Nelle analisi di sicurezza che hanno combinato i dati della sperimentazione randomizzata e controllata con quelli dati provvisori dell’estensione in aperto, la durata media del trattamento con inebilizumab è stata di 1,5 anni.

«Il rapido effetto di inebilizumab sulla prevenzione degli attacchi non è mediato dalla riduzione di AQP4-IgG, sebbene sia possibile che il trattamento a lungo termine con inebilizumab possa eventualmente ridurne la produzione» ha affermato Cree.

Gli eventi avversi più comuni sono stati: infezioni del tratto urinario (UTI, 19,6%), rinofaringiti (12,9%) e reazioni correlate all’infusione (IRR, 11,6%). Le IRR erano più comuni con la prima infusione. La percentuale di pazienti trattati con inebilizumab con livelli di IgG al di sotto del limite inferiore della norma era del 7,5% a 1 anno e del 13,4% a 2 anni.

Eventi avversi gravi si sono verificati nel 12% dei pazienti e le UTI erano le più comuni (2,2%). Due pazienti sono deceduti nell’estensione in aperto; una morte è derivata da NMOSD e una da nuove presunte lesioni infiammatorie cerebrali di eziologia indeterminata.

Perché è importante la fase di estensione in aperto?
«I risultati in aperto mostrano una notevole durata dell’effetto del trattamento» ha detto Cree. «La maggior parte degli attacchi che si sono verificati durante l’estensione in aperto si sono verificati all’inizio, suggerendo che il rischio di attacco diminuisce con la durata dell’esaurimento delle cellule B».

«Lo studio in aperto, inoltre, è importante per valutare il profilo degli eventi avversi a lungo termine derivanti dal trattamento con inebilizumab» ha proseguito. «Un’osservazione potenzialmente importante dall’estensione in aperto è che l’entità della deplezione delle cellule B è correlata con un ridotto rischio di attacchi».

Tanto è vero che «circa il 95% dei partecipanti con deplezione profonda di cellule B era privo di attacchi, mentre i partecipanti che hanno esaurito le cellule B in modo incompleto o che hanno iniziato a ricostituire le cellule B più rapidamente erano ad aumentato rischio di attacchi».

«Pertanto», ha rilevato Cree «monitorando la conta delle cellule B nei pazienti trattati con inebilizumab, potrebbe essere possibile ridurre ulteriormente il rischio di attacchi nei pazienti che esauriscono parzialmente le cellule B o le ricostituiscono precocemente, attraverso un trattamento aggiuntivo di inebilizumab».