Rigurgito aortico: pressione e frequenza cardiaca fattori chiave


Rigurgito aortico: pressione arteriosa diastolica e la frequenza cardiaca a riposo forniscono importanti informazioni prognostiche per i pazienti

Rigurgito aortico: pressione arteriosa diastolica e la frequenza cardiaca a riposo forniscono importanti informazioni prognostiche per i pazienti

Nuovi dati, pubblicati sul “Journal of American College of Cardiology” (JACC), dimostrano che la pressione arteriosa (PA) diastolica e la frequenza cardiaca (FC) a riposo forniscono importanti informazioni prognostiche per i pazienti con rigurgito aortico (AR) cronico emodinamicamente significativo.

Letture diastoliche inferiori a 70 mm Hg e frequenze cardiache a riposo superiori a 60 battiti al minuto (bpm) sono state fortemente associate alla mortalità per tutte le cause in pazienti in trattamento medico, anche dopo aver tenuto conto di potenziali fattori di confondimento come ipertensione, uso di vari farmaci e linee guida per la chirurgia valvolare, sostengono gli autori dello studio, guidati da Li-Tan Yang, della Mayo Clinic di Rochester.

Secondo l’autore senior Hector Michelena, anch’egli della Mayo Clinic, l’importanza di questo studio consiste nel fatto che è la prima volta che la PA diastolica e la FC sono state formalmente valutate per la loro associazione con la mortalità nell’AR, e questo ha cambiato alcuni dei paradigmi clinici della comunità dei cardiologi riguardo a questi due parametri e all’AR.

Il solido legame tra queste misure e la mortalità è particolarmente importante perché «non è una nuova tecnologia high-tech che porta nuove informazione bensì è la misurazione di base della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, che sono eseguite ogni giorno in tutto il mondo con un costo minimo o nullo» ha aggiunto.

La conclusione, per Michelena, è che «non vi è dubbio che la PA diastolica e la FC a riposo siano associate in modo indipendente alla morte in pazienti con AR significativo. In effetti, aumentano, anche se non in modo enorme, la discriminazione del rischio di morte al di sopra delle caratteristiche cliniche di base e degli attuali fattori scatenanti chirurgici.

Riscontrate robuste associazioni con il rischio di mortalità
I ricercatori osservano che «le attuali linee guida ipoteticamente mettono in guardia contro l’uso di farmaci che potrebbero peggiorare il sovraccarico di volume causando bradicardia e contro la marcata riduzione della PA diastolica che potrebbe compromettere la perfusione coronarica. Tuttavia, queste preoccupazioni sono solo congetturali perché il significato clinico della PA diastolica e della FC a riposo nei pazienti con AR non è noto».

Per esplorare il problema, hanno esaminato retrospettivamente i dati tra gennaio 2006 e ottobre 2017 su 820 pazienti con AR da moderata a grave (età media 59 anni; 92% uomini). Durante un follow-up medio di 5,5 anni, quasi la metà dei pazienti (49%) è stata sottoposta a chirurgia valvolare e 153 (19%) sono deceduti, di cui 104 in terapia medica e 49 dopo chirurgia valvolare.

Dopo aggiustamento per dati demografici, comorbilità e fattori scatenanti chirurgici basati sulle linee guida (inclusi sintomi, frazione d’eiezione ventricolare sinistra [LVEF] e indice del diametro endosistolico del ventricolo sinistro), il rischio di mortalità per tutte le cause sotto controllo medico è risultato aumentato con riduzioni della PA diastolica al basale (HR aggiustato per aumento di 10 mm-Hg :0,79, IC 95% 0,66-0,94) e aumenti della FC a riposo basale (HR aggiustato per aumento di 10 bpm: 1,23, IC 95% 1,03-1,45).

Tali relazioni sono rimaste significative in una varietà di analisi aggiuntive che hanno tenuto conto di gravità dell’AR, presenza di ipertensione, uso di farmaci, chirurgia della valvola aortica tempo-dipendente, oltre che della PA diastolica media e della FC a riposo durante il follow-up (al contrario di una misurazione una tantum al basale).

Il rischio di mortalità era maggiore nei pazienti con AR che nelle loro controparti corrispondenti per età e genere della popolazione generale, e tale rischio aumentava con la riduzione della PA diastolica (a partire da letture inferiori a 70 mm Hg, con un picco a 55 mm Hg) e con l’aumento della frequenza cardiaca a riposo (a partire da letture di 60 bpm).

Dopo intervento chirurgico alla valvola aortica, la relazione tra frequenza cardiaca e mortalità è rimasta, ma non c’era più un’associazione con la PA diastolica, «presumibilmente perché la fisiopatologia alla base della bassa pressione diastolica è stata corretta dalla chirurgia della valvola aortica» scrivono gli autori.

L’interpretazione fisiopatologica dei risultati
Yang e colleghi fanno notare che il legame tra l’aumento della frequenza cardiaca e la mortalità è in conflitto con l’idea che la bradicardia dovrebbe essere evitata nei pazienti con AR cronico. «Nella nostra coorte di studio, il 45% dei pazienti presentava una frequenza cardiaca a riposo </= 60 bpm, a supporto dell’osservazione clinica della bradicardia relativa in pazienti con AR emodinamicamente significativa» scrivono.

Gli autori ipotizzano che un aumento del volume totale sistolico nell’AR possa attivare il tono parasimpatico, che rallenta la frequenza cardiaca a riposo in pazienti con AR ben compensato, suggerendo inoltre che, quando la gravità dell’AR sovrasta il ventricolo sinistro (LV), si ha l’attivazione del tono simpatico, con conseguente aumento della frequenza cardiaca a riposo e del consumo di ossigeno del miocardio, con ulteriore carico dell’LV ed esiti peggiori.

Allo stesso modo, ipotizzano che una PA diastolica molto bassa possa causare ipoperfusione coronarica di un miocardio già ipertrofico, portando a sua volta ad outcome peggiori. Aggiungono che queste ipotesi devono essere valutate in studi futuri ma, secondo Michelena e colleghi, i clinici possono ora agire basandosi sui risultati di questa nuova analisi.

Quali conclusioni ai fini della valutazione del paziente?
Sebbene da questi dati non si possano trarre conclusioni sulla causalità, le associazioni di PA diastolica e frequenza cardiaca con mortalità sono solide e possono aiutare a guidare la valutazione di questi pazienti, sostengono gli autori.

Poiché il rischio è un continuum, non dovrebbero essere utilizzati limiti severi, aggiungono; piuttosto, letture diastoliche più basse e frequenze cardiache più elevate, specialmente quando si osservano cambiamenti di questi parametri nel tempo, dovrebbero servire come segnali del fatto che un paziente ha un rischio maggiore di esiti negativi.

Di fronte a questi evidenti fattori di rischio e marker di morte, precisano gli autori, si ha la certezza che la malattia sta progredendo. In questo caso uno specialista deve fare approfondimenti per valutare la necessità di un intervento chirurgico mentre un medico non specialista deve indirizzare il paziente a un collega esperto in valvulopatie, indipendentemente dalla presenza o meno di sintomi.

In un editoriale di commento, John Chambers, dei Guy’s and St Thomas’ Hospitals di Londra, concorda sul fatto che una bassa PA diastolica e un’alta FC a riposo «possono già fornire una ‘red flag’ per avvisare il medico della necessità di una maggiore vigilanza. Ciò» spiega «include la rilevazione di sintomi anche non specifici, la valutazione di un test da sforzo e la rivalutazione di ecocardiogrammi seriali in termini di cambiamenti avversi».

«Gli autori» aggiunge «suggeriscono che questi marker possono anche essere ‘trigger’ per riferirsi a un team specializzato in valvulopatie, ma riteniamo che tutti i pazienti con AR grave e persino moderato dovrebbero già essere visti da cardiologi con competenze valvolari specialistiche idealmente in una clinica specializzata in queste patologie».

Comunque, conclude Chambers, questo studio «è utile nel nostro tempo di sofisticazione diagnostica sempre crescente per evidenziare l’importanza di semplici marcatori fisiologici nel corso di un esame clinico di routine, i quali possono essere facilmente ottenuti da tutti i clinici».