Dalla Turchia: “Alla tavola del padre” di Gaye Boralioğlu. Un romanzo psicologico e sociale che svela il peso del patriarcato attraverso l’antieroe tragico e ironico Hilmi Aydin (le Assassine)
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Nel cuore di Istanbul, tra le ombre di Balat e le pieghe della memoria, il romanzo ci trascina nella vita di Hilmi Aydin, un anti eroe tragico e ironico, che incontriamo mentre giace a terra con un foro di proiettile in fronte. Da quel momento in poi la storia si snoda come una spirale di confessioni, menzogne e rivelazioni per esplorare l’esistenza e l’identità frammentata di Hilmi e le relazioni che lo definiscono, soprattutto quelle familiari, e in particolare con Mehmet Aydin, padre, cuoco e patriarca. Ogni piatto che esce dalla cucina del suo ristorante è un comandamento, ogni pasto una lezione di vita. Il suo menù non nutre, e il disprezzo del padre verso Hilmi viene servito con la stessa precisione del riso pilaf. Ma questo conflitto padre-figlio, un archetipo universale visto con sguardo contemporaneo e provocatorio, presenta nel capitolo finale un’ammissione sorprendente, in cui si avverte l’eco della Lettera al padre di Kafka e che destabilizza tutto ciò che si è creduto fino a questo punto della storia. È un colpo alla mitologia del padre, alla sacralità della famiglia e alla linearità della memoria.
Tuttavia Alla tavola del padre è anche un romanzo di carne e sapori, dove il cibo diventa linguaggio emotivo e memoria incarnata. Le pietanze turche ‒ il riso speziato, il pesce fritto, le melanzane affumicate ‒ non sono semplici dettagli di sfondo: sono riti familiari, gesti di cura e di potere, strumenti di seduzione e di esclusione.
Incipit «L’essere umano è un animale ferito. Io, Hilmi Aydın, sono disteso sotto un cielo in cui galleggiano nuvole bianche di cotone, ai piedi di questo enorme salice dai rami che pendono come per proteggermi. Ho un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Sono ferito. E stavolta sul serio. La luce del sole filtra con dolcezza tra le fronde e colpisce il bottone che ho giusto in mezzo alla pancia. Un bottone di metallo dorato, che tempo fa si era staccato e che mia moglie aveva ricucito. Mi si chiudono gli occhi. Li riapro. Da qui riesco a vedermi le gambe mezze sepolte dall’erba. Mi si è sfilata una scarpa. Dal buco nel calzino spunta l’alluce. Cerco di muovere le dita dei piedi, non va. Provo a guardarmi intorno nella speranza di vedere la scarpa, ma non riesco a voltarmi»
Gaye Boralioğlu (Istanbul 1963) è una delle voci più originali e incisive della narrativa turca contemporanea. Laureata in filosofia, ha iniziato la sua carriera come giornalista e sceneggiatrice televisiva, prima di dedicarsi alla scrittura letteraria. Le sue opere esplorano l’identità il genere, la memoria e le tensioni familiari dando voce a personaggi marginali e a prospettive spesso silenziate.