Novartis sigla accordo con Tourmaline Bio


Novartis ha accettato di acquisire Tourmaline Bio al prezzo di 48 $ per azione in contanti, valutando l’azienda biotecnologica attorno a 1,4 miliardi di dollari

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Novartis ha accettato di acquisire Tourmaline Bio al prezzo di 48 $ per azione in contanti, valutando l’azienda biotecnologica attorno a 1,4 miliardi di dollari, mentre la casa farmaceutica svizzera punta a rafforzare il suo attuale portafoglio cardiovascolare.

Con questa operazione, Novartis acquisirà il farmaco a lunga durata d’azione anti-IL-6, il pacibekitug, ormai pronto per entrare in fase III nello sviluppo per la malattia cardiovascolare aterosclerotica (ASCVD).

«Con l’assenza di terapie anti-infiammatorie ampiamente adottate per ridurre il rischio cardiovascolare residuo, pacibekitug rappresenta una potenziale svolta nel trattamento di questo rischio residuo nell’ASCVD», ha commentato Shreeram Aradhye, Chief Medical Officer di Novartis.

Nel maggio 2025, Tourmaline ha presentato i primi risultati dello studio di fase II TRANQUILITY, dimostrando che tutte le dosi di pacibekitug hanno raggiunto l’endpoint primario della variazione mediana percentuale media nel tempo di hs-CRP fino al giorno 90, con “alta significatività statistica”. Con la dose di 50 mg ogni tre mesi, la riduzione mediana del time-averaged percent change in hs-CRP è stata dell’86 %, rispetto al 15 % del placebo.

In quel momento, Tourmaline anticipava già piani per avviare uno studio di fase III sugli outcome cardiovascolari e una sperimentazione proof-of-concept nei pazienti con aneurisma dell’aorta addominale nel secondo semestre del 2025.

L’acquisizione – approvata all’unanimità dai consigli di amministrazione di entrambe le società – dovrebbe essere finalizzata nel quarto trimestre del 2025, dopo l’offerta pubblica d’acquisto e le autorizzazioni normative, e Tourmaline diventerà una controllata indiretta al 100% di Novartis.

Questo accordo mette Novartis in competizione diretta con Novo Nordisk e il suo inibitore IL-6 ziltivekimab: nello studio di fase intermedia RESCUE, una dose mensile da 30 mg di ziltivekimab ha causato una riduzione media del 92 % degli hs-CRP dopo 12 settimane, contro il 4 % del placebo.

Il portafoglio cardiovascolare di Novartis include: Leqvio il farmaco antisenso per il colesterolo-elevato a smministrazione semestrale, il trattamento per insufficienza cardiaca Entresto, e il candidato antisense pelacarsen per prevenire eventi cardiovascolari nei pazienti con Lp(a). La strategia include anche collaborazioni con Argo Biopharmaceutical, ProFound Therapeutics e l’acquisizione di Anthos Therapeutics nel corso del 2025.

Ruolo dell’infiammazione nella malattia cardiovascolare e potenziale degli anti IL-6
Per molto tempo la malattia cardiovascolare è stata vista quasi esclusivamente come un problema di colesterolo e pressione arteriosa. Con l’arrivo delle statine e di farmaci come ezetimibe e dei PCSK9-inibitori, e più di recente anche delkl0’acudo bempedoico, il controllo del colesterolo LDL è diventato sempre più efficace. Eppure, anche nei pazienti trattati al meglio, continuavano a verificarsi infarti e ictus. Questo “rischio residuo” ha spinto i ricercatori a guardare oltre i lipidi.

Già negli anni Duemila si è rafforzata l’idea che l’infiammazione cronica giocasse un ruolo centrale nell’aterosclerosi: le placche non sono solo depositi di grasso, ma anche zone “attive”, con cellule immunitarie e mediatori infiammatori che ne determinano la crescita e l’instabilità. Tra questi mediatori, un ruolo cruciale è emerso per l’interleuchina-6 (IL-6), responsabile anche della produzione epatica della proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP), un noto biomarcatore di rischio cardiovascolare.

Il primo grande punto di svolta è arrivato nel 2017, con lo studio CANTOS, che testava il canakinumab, un anticorpo monoclonale contro IL-1β (una molecola “a monte” della cascata che porta all’attivazione di IL-6). Nei pazienti con pregresso infarto e hs-CRP elevata, il trattamento ha ridotto in maniera significativa gli eventi cardiovascolari maggiori. Per la prima volta si dimostrava in modo solido che spegnere l’infiammazione abbassa davvero il rischio cardiovascolare, indipendentemente dal colesterolo.

Il problema era che canakinumab era molto costoso e aumentava il rischio di infezioni gravi: quindi non ha trovato spazio come terapia di routine.
Da lì la ricerca si è concentrata direttamente sull’IL-6, considerata lo snodo chiave. Gli studi genetici hanno rafforzato questa direzione: le persone con varianti che riducono l’attività della via IL-6 presentano un minor rischio di eventi cardiovascolari, come se fossero “protette” naturalmente.

Da allora l’attenzione si è spostata più in basso nella cascata infiammatoria, verso l’interleuchina-6 (IL-6). Questa proteina ha un ruolo centrale: stimola il fegato a produrre la proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP), un biomarcatore che da anni i cardiologi usano come “spia” dell’infiammazione. E gli studi genetici hanno confermato l’intuizione: chi ha varianti che attenuano l’attività della via IL-6 è naturalmente protetto da eventi cardiovascolari.

Oggi due candidati sono in prima linea: ziltivekimab di Novo Nordisk e pacibekitug, appena entrato nel portafoglio Novartis grazie all’acquisizione di Tourmaline Bio. Nei primi studi clinici entrambi hanno dimostrato una riduzione impressionante dei livelli di hs-CRP – fino al 90% – con regimi di somministrazione comodi (una volta al mese o addirittura ogni tre mesi).
La domanda che resta è cruciale: questi anticorpi riusciranno davvero a trasformare la riduzione dell’infiammazione in una riduzione degli eventi clinici, cioè di infarti e ictus? Le risposte arriveranno dai grandi studi di fase III in corso.

Se confermate, potremmo essere davanti a una nuova era in cardiologia: accanto ai farmaci per abbassare il colesterolo, farmaci per spegnere l’infiammazione del cuore e delle arterie.