In pazienti con artrite reumatoide in terapia stabile con DMARD tradizionali, i controlli ematochimici di tossicità dopo i primi sei mesi di trattamento potrebbero non essere indispensabili in modo sistematico
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Un’analisi retrospettiva, condotta in Olanda e pubblicata su Annals of Internal Medicine, suggerisce che, nei pazienti con artrite reumatoide (AR) in terapia stabile con DMARD tradizionali, i controlli ematochimici di tossicità dopo i primi sei mesi di trattamento potrebbero non essere indispensabili in modo sistematico.
I dati mettono in discussione la pratica consolidata del monitoraggio frequente e indiscriminato, aprendo la strada a strategie più mirate, con benefici per pazienti, ambiente e sostenibilità del sistema sanitario.
Razionale dello studio
Il monitoraggio periodico degli esami ematochimici nei pazienti con AR in trattamento con DMARD rappresenta da decenni una prassi standard, soprattutto per farmaci come metotressato, leflunomide o sulfasalazina. Tuttavia, le raccomandazioni delle linee guida variano sensibilmente in termini di durata, frequenza e tipologia dei test.
In genere, si prevede un controllo trimestrale nei trattamenti consolidati con DMARD tradizionali, mentre per molti farmaci biologici più recenti la necessità di monitoraggio è ridotta o assente.
La pandemia da COVID-19, con la conseguente riduzione forzata dei controlli di routine, ha fornito un’ulteriore occasione per interrogarsi sull’effettiva utilità di questi esami a lungo termine, senza evidenziare apparenti danni clinici.
L’obiettivo del nuovo studio, pertanto, è stato quello di determinare l’incidenza cumulativa delle anomalie di laboratorio di qualsiasi tipo e di quelle “gravi” nei pazienti con artrite reumatoide (AR), nonché di caratterizzare il contesto clinico in cui si verificano le anomalie di laboratorio “gravi”.
Disegno dello studio e risultati principali
I ricercatori hanno analizzato retrospettivamente le cartelle cliniche di 4.774 pazienti con AR, trattati con DMARD per almeno sei mesi, seguiti dal 2008 al 2020. In totale, sono stati valutati quasi 60.000 test ematici, corrispondenti a 18.383 anni-paziente.
Il protocollo di sorveglianza prevedeva controlli a 4, 8, 12 e 24 settimane dall’inizio della terapia, quindi ogni 3-6 mesi. Tra gli esami valutati per l’analisi vi erano la funzionalità renale (eGFR), le transaminasi (ALT), l’emocromo completo con emoglobina, i leucociti e le piastrine.
I ricercatori hanno operato una distinzione tra anomalie “qualsiasi” e anomalie “gravi”, definite da cut-off clinicamente rilevanti, calcolando le probabilità cumulative di risultati anomali e molto anomali per: alanina aminotransferasi (>100 e >300 U/L), filtrato glomerulare stimato (eGFR; <60 e <45 mL/min/1,73 m²), emoglobina (Hb; <7,5 mmol/L [donne] o <8 mmol/L [uomini] e <6 mmol/L), conta leucocitaria (<3,5 e <2,0 × 10⁹/L) e conta piastrinica (<140 e <100 × 10⁹/L).
I principali risultati cumulativi a 5 anni sono stati i seguenti:
– eGFR: 39% qualsiasi alterazione, 11% gravi
– ALT: 7,5% qualsiasi alterazione, 0,6% gravi
– Emoglobina: 61% qualsiasi alterazione, 5,7% gravi
– Leucociti: 11% qualsiasi alterazione, 0,3% gravi
– Piastrine: 12% qualsiasi alterazione, 2,3% gravi
Le anomalie “gravi” di laboratorio, rilevate solo in 449 pazienti, si sono verificate per lo più dopo un aumento della dose (6,5%) del/i farmaco/i impiegato/i, erano spesso già note o sospettate (47,7%), considerate non correlate all’impiego di DMARD (24,1%) oppure non seguite da alcuna azione clinica (35,8%).
L’incidenza delle alterazioni meno gravi è risultata invece più elevata, fino al 39% per valori di eGFR inferiori a 60 mL/min/1,73 m² e al 61% per livelli di emoglobina inferiori a 7,5 mmol/L nelle donne o a 8 mmol/L negli uomini.
Limiti e implicazioni dello studio
Lo studio presenta alcune limitazioni: il numero relativamente basso di eventi gravi non ha consentito di distinguere il rischio tra i diversi farmaci o le combinazioni terapeutiche; inoltre, includendo solo pazienti che avevano tollerato almeno 6 mesi di trattamento, non si può escludere l’esistenza di un bias da “survivor effect”, dato che sono stati osservati solo i pazienti che hanno tollerato e proseguito la terapia, escludendo automaticamente chi ha avuto eventi avversi precoci, ha interrotto il trattamento o è stato perso al follow-up.
Ciò premesso, gli autori dello studio hanno sottolineato che, pur non potendo concludere in modo definitivo sull’inutilità del monitoraggio oltre i 6 mesi (mancando un trial randomizzato ad hoc), i dati raccolti suggeriscono come la pratica routinaria e non selettiva abbia un rendimento clinico molto basso.
Ecco perché -concludono i ricercatori – un approccio più mirato, basato su fattori di rischio individuali e modifiche terapeutiche, potrebbe garantire sicurezza equivalente, riducendo allo stesso tempo gli oneri per i pazienti, i costi per il sistema sanitario e l’impatto ambientale.
Bibliografia
Ulijn E, et al “Long-term routine laboratory toxicity monitoring of immunomodulatory drugs in rheumatoid arthritis: a retrospective cohort study” Ann Intern Med 2025; DOI: 10.7326/ANNALS-24-01598.
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