Lupus: presentato uno studio innovativo proof-of-concept, incentrato su un nuovo approccio per prevedere e stratificare il rischio di danno d’organo, in particolare quello renale
Nel corso del congresso EULAR, ricercatori italiani dell’Università di Torino hanno presentato uno studio innovativo proof-of-concept, incentrato su un nuovo approccio per prevedere e stratificare il rischio di danno d’organo, in particolare quello renale, nei pazienti con LES.
Nello specifico, i risultati hanno evidenziato il ruolo centrale del metabolismo purinergico nel LES. L’espressione degli ectoenzimi CD38, CD39, CD73 e PC1/CD203a, infatti: 1) riflette lo stato infiammatorio sistemico e il coinvolgimento d’organo; 2) può fornire strumenti per la profilazione immunologica e la stratificazione di rischio e 3) apre la strada allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche basate sulla modulazione metabolica.
Razionale dello studio
Negli ultimi anni, si è compreso sempre più quanto il metabolismo dell’adenosina – una molecola centrale nel controllo dell’infiammazione – giochi un ruolo chiave nella regolazione della risposta immunitaria, in particolare nel contesto delle malattie autoimmuni. Questo processo avviene in larga parte al di fuori delle cellule, attraverso l’azione di una serie di enzimi di superficie, noti come ectoenzimi, che trasformano ATP e NAD⁺ extracellulari in adenosina. Tra i principali protagonisti di questo sistema ci sono CD38, CD39, CD73 e CD203a (noto anche come PC1).
Il sistema purinergico regola un delicato equilibrio tra segnali pro-infiammatori (come l’ATP extracellulare) e segnali anti-infiammatori (come l’adenosina). Quando questo equilibrio si altera – come accade in molte malattie autoimmuni – il risultato può essere un’attivazione immunitaria incontrollata.
Ogni enzima coinvolto ha un ruolo preciso:
– CD38 modula indirettamente la produzione di adenosina metabolizzando il NAD⁺ e, nel farlo, influisce anche sul metabolismo redox e sullo stress ossidativo;
– CD39 degrada l’ATP e l’ADP in AMP, riducendo la quota di segnali pro-infiammatori;
– CD73, infine, converte l’AMP in adenosina, con effetti immunosoppressivi diretti;
– CD203a (PC1) partecipa a una via alternativa per la produzione di AMP, affiancandosi alla via canonica.
Alterazioni nell’espressione di questi enzimi sono state documentate in patologie come l’artrite reumatoide, ma il loro significato clinico nel LES era finora poco esplorato.
Nello studio presentato al congresso, condotto da ricercatori dell’area reumatologica dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, ci si è concentrati sul LES con un duplice obiettivo: da un lato, analizzare l’espressione di questi enzimi in una coorte di pazienti affetti da LES; dall’altro, esplorare possibili correlazioni con l’attività della malattia e il coinvolgimento d’organo, in particolare quello renale.
Perché concentrarsi sul danno d’organo
“Il lupus è una patologia che può avere un esordio molto acuto, molto grave, – ricorda ai nostri microfoni il dott. Simone Parisi (Reumatologo presso la Struttura Complessa di Reumatologia, A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino), primo autore dello studio presentato al congresso – e spesso coinvolge organi interni: non solo la cute – che è la parte più visibile – ma anche il rene, il sistema nervoso centrale, il cuore e i polmoni. È quindi una malattia a 360 gradi, con un interessamento sistemico che può essere rapidissimo”.
Questa natura multisistemica rende indispensabile disporre di marcatori capaci di segnalare in anticipo quali pazienti andranno incontro alle complicanze più serie.
Disegno dello studio
Lo studio, avente un disegno osservazionale prospettico, ha coinvolto su 35 pazienti affetti da LES, arruolati consecutivamente. L’età media era di circa 49 anni, con una durata media di malattia di oltre 9 anni e punteggio medio SLEDAI pari a 8. Tutti i pazienti erano in trattamento con almeno una terapia immunomodulante, e le manifestazioni cliniche più frequenti riguardavano la cute, le articolazioni e il rene.
Attraverso la citometria a flusso, i ricercatori hanno analizzato l’espressione di CD38, CD39, CD73 e CD203a su cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) e su sottopopolazioni di cellule B, in due momenti: all’inizio dello studio e a sei mesi di distanza.
Risultati principali
Dai dati sono emerse correlazioni significative tra l’espressione di questi enzimi e specifiche manifestazioni cliniche della malattia:
– l’espressione di CD38 nei plasmablasti (NdR: popolazione cellulare transitoria, che si trova tra il linfocita B attivato e la plasmacellula completamente differenziata) era associata a proteinuria, suggerendo un legame con il coinvolgimento renale
– CD39, nelle cellule B, mostrava un’associazione con la presenza di nefrite lupica, una delle complicanze più temute del LES
– CD203a risultava correlato sia con l’attività globale della malattia (SLEDAI) sia con forme severe di glomerulonefrite (III/IV)
Interessante è risultato essere anche il dato su CD73, la cui espressione era inversamente correlata con le manifestazioni cutanee, suggerendo un possibile effetto protettivo.
Questi dati ci indicano che gli ectoenzimi non sono semplici marcatori accessori, ma componenti funzionali della risposta immunitaria nel LES, in grado di riflettere l’attività della malattia e di fornire indicazioni utili per la gestione clinica.
Implicazioni pratiche potenziali
Nel commentare i risultati, il dott. Parisi ha spiegato: “Questa analisi ci permette di stratificare i pazienti che sono più esposti al danno d’organo, in particolare a livello renale, e quindi di avere sia un fattore predittivo – per sapere chi potrà sviluppare nefrite – sia un fattore prognostico, perché di solito questi pazienti presentano recidive renali più frequenti”.
Nello specifico:
– CD38 si conferma come un enzima chiave nel legame tra immunità e metabolismo: la sua sovraespressione è un segnale di attivazione delle cellule B e può contribuire alla deplezione di NAD⁺, aggravando lo stress ossidativo. Il blocco di CD38 con anticorpi monoclonali, già usato in altri contesti clinici, potrebbe rappresentare una nuova strategia terapeutica anche per il LES
– CD39 e CD203a potrebbero diventare biomarcatori predittivi del coinvolgimento renale: il loro aumento nelle cellule B dei pazienti con nefrite suggerisce un possibile utilizzo clinico per anticipare il danno renale e stratificare meglio i pazienti ad alto rischio
– CD73, infine, sembra esercitare un’azione protettiva, soprattutto a livello cutaneo. La sua attività nel generare adenosina potrebbe essere valorizzata farmacologicamente, aprendo la strada a interventi mirati su specifici organi bersaglio.
Per quanto detto sopra il dott. Parisi, pur ricordando la natura esplorativa dello studio (proof-of-concept) e la necessità di confermare quanto osservato in studi di validazione muticentrica e follow-up prolungato, ha concluso affermando che i dati ottenuti aprono la strada ad una medicina di precisione “metabolica”, in cui il pannello degli ectoenzimi potrebbe rivelarsi utile per: 1) profilare immunologicamente i pazienti LES; 2) predire e prevenire il danno d’organo e 3) guidare nuovi interventi terapeutici.
Bibliografia
Parisi S et al. Ectoenzyme and adenosine modulation in SLE: new perspectives in patient profiling. POS0845; EULAR 2025

