Nuove frontiere nella cura delle malattie del fegato


All’ultimo congresso dell’AISF (Associazione Italiana per lo Studio del Fegato) si è discusso di novità per i pazienti con colangite biliare primitiva, epatite delta ed epatite C

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Le recenti scoperte scientifiche stanno rivoluzionando la gestione di alcune patologie epatiche, migliorando la qualità della vita dei pazienti. Durante la 57^ edizione del congresso dell’AISF (Associazione Italiana per lo Studio del Fegato) si è discusso di novità per i pazienti con colangite biliare primitiva oltre che di epatite delta ed epatite C.

Colangite biliare primitiva: nuove prospettive terapeutiche
La colangite biliare primitiva (CBP) è una malattia autoimmune infiammatoria cronica che colpisce i dotti biliari di piccolo calibro, portando alla progressiva distruzione del fegato fino alla cirrosi. In passato, veniva diagnosticata solo in stadi avanzati ed era conosciuta come “cirrosi biliare primitiva”. Pur essendo una malattia non comune, non è considerata rara e colpisce prevalentemente le donne.
Oggi la diagnosi di CBP è relativamente semplice e si basa sulla presenza di colestasi, aumento persistente della fosfatasi alcalina e positività agli anticorpi anti-mitocondrio (AMA) o, in alcuni casi, agli anticorpi anti-nucleo (SP100 o GP210). La biopsia epatica è riservata solo ai casi dubbi.

Gli obiettivi principali della gestione della CBP sono tre: rallentare la progressione della malattia, migliorare i sintomi e ottimizzare la qualità della vita.
“Uno degli aspetti critici della malattia è che spesso viene diagnosticata in fase avanzata, poiché inizialmente non presenta sintomi evidenti. Tuttavia, due segnali possono far sospettare la patologia: stanchezza cronica (astenia) di origine non chiara; prurito intenso, spesso debilitante” evidenzia il prof. Marco Marzioni, professore di Gastroenterologia presso l’Università Politecnica delle Marche; Azienda Ospedaliero Universitaria delle Marche, Ancona.
La stratificazione del rischio si basa principalmente sui livelli di fosfatasi alcalina: minori sono i valori, minore è il rischio di progressione. Studi recenti suggeriscono che la normalizzazione completa dei test epatici dovrebbe diventare l’obiettivo primario del trattamento.

Un aspetto fondamentale è la gestione dei sintomi, in particolare il prurito e l’astenia, spesso sottovalutati ma altamente invalidanti. Le linee guida EASL del 2017 suggeriscono l’utilizzo di questionari specifici per monitorare la qualità della vita dei pazienti. Circa la metà dei pazienti soffre di prurito, che può avere un impatto significativo sulle attività quotidiane.
Le terapie attuali per il prurito risultano spesso insoddisfacenti, ma nuove opzioni stanno emergendo. Gli agonisti selettivi dei recettori PPAR alfa e delta stanno dimostrando non solo di ridurre la colestasi, ma anche di migliorare il prurito.

“Attualmente, il trattamento standard prevede l’uso di acido ursodesossicolico, una sostanza prodotta naturalmente dal fegato, che svolge un’azione protettiva sulle cellule biliari. Una volta diagnosticata la malattia, il paziente deve essere seguito da uno specialista, gastroenterologo, epatologo o internista, per impostare la terapia e monitorare l’evoluzione della patologia nel tempo” aggiunge Marzioni.
Recentemente, la Commissione Europea ha concesso l’approvazione condizionata per la commercializzazione di seladelpar, un nuovo trattamento per la colangite biliare primitiva.
Seladelpar, un agonista selettivo del recettore delta, rappresenta una svolta nel trattamento della CBP, influenzando sia la progressione della malattia che la qualità della vita dei pazienti.
“Seladelpar è un farmaco di seconda linea, che si aggiunge alla terapia standard nei pazienti che non rispondono adeguatamente all’acido ursodesossicolico. La sua azione si basa sulla modulazione del recettore nucleare PPAR-delta, bloccando i meccanismi molecolari che favoriscono infiammazione, fibrosi e sintomi debilitanti, come il prurito.

Si assume per via orale, facile per il paziente, ha un’efficacia dimostrata nel ridurre le alterazioni biochimiche epatiche e migliora significativamente il prurito, un sintomo spesso difficile da trattare.
Gli studi clinici hanno dimostrato che nei pazienti con risposta insufficiente alla terapia di base, l’aggiunta di seladelpar porta a un miglioramento marcato dei parametri epatici, fino alla normalizzazione della fosfatasi alcalina in molti casi. Inoltre, per la prima volta, un farmaco per la colangite biliare primitiva agisce direttamente sui sintomi, migliorando la qualità della vita dei pazienti” spiega Marzioni.
Ulteriori studi sono in corso per verificare l’efficacia di altre molecole innovative, come gli inibitori del trasportatore del sale biliare apicale (ASBT), che potrebbero rappresentare un’opzione terapeutica promettente.

Epatite delta: una nuova speranza
L’epatite delta è una malattia rara ma estremamente aggressiva, che colpisce circa 12 milioni di persone nel mondo, di cui 5.000-10.000 in Italia. I pazienti con epatite delta sviluppano complicanze gravi in giovane età, con un alto rischio di insufficienza epatica e tumore.
Fino a poco tempo fa, non esistevano terapie efficaci. Tuttavia, nel 2020 è stato approvato in Europa e nel 2023 in Italia un nuovo farmaco rivoluzionario: un trattamento sottocutaneo da 2 mg al giorno, che non è un antivirale diretto ma un agente che protegge le cellule sane dall’infezione. Questo farmaco sta cambiando la gestione dell’epatite delta, con risposte migliori nei pazienti che lo assumono per almeno tre anni.

“Grazie a questa innovazione terapeutica, la vita dei pazienti è cambiata significativamente, così come la loro gestione clinica. Per decenni, questi pazienti sono stati seguiti nei nostri ambulatori senza avere a disposizione un trattamento antivirale. Hanno atteso 20-30 anni prima di poter accedere a una terapia” precisa il prof. Pietro Lampertico, professore Ordinario di Gastroenterologia-Università degli Studi di Milano; Direttore Struttura Complessa Gastroenterologia e Epatologia-Policlinico di Milano.

“Attualmente, i pazienti vengono monitorati ogni tre mesi durante il trattamento, con controlli più ravvicinati rispetto al passato. Tuttavia, il feedback che riceviamo è estremamente positivo: il farmaco è ben tollerato, migliora gli esami del sangue, riduce la viremia e le transaminasi e diminuisce il rischio di eventi epatici. Ovviamente, richiede una somministrazione sottocutanea quotidiana, ma i controlli trimestrali servono proprio a rafforzare l’aderenza alla terapia” continua il prof. Lampertico.
Il prof. Lampertico segnala inoltre che gli studi clinici hanno dimostrato che, dopo tre anni di terapia, il 29% dei pazienti ottiene una risposta virologica completa. Anche nei pazienti con cirrosi avanzata, il farmaco si è rivelato efficace e ben tollerato, con miglioramenti significativi nei marcatori epatici e nella qualità della vita.
Grazie all’impegno della comunità scientifica italiana, oggi circa 900 pazienti stanno ricevendo il trattamento, e i dati preliminari sono molto promettenti. Per la prima volta in 45 anni, l’epatite delta non è più una condanna senza appello, ma una patologia che può essere gestita efficacemente.

“Al congresso di quest’anno abbiamo presentato due studi importanti che riguardano proprio questo argomento. In particolare, uno studio retrospettivo multicentrico europeo su pazienti cirrotici e uno studio prospettico italiano di pratica clinica su pazienti sia cirrotici che non cirrotici. Complessivamente, questi studi hanno arruolato oltre 700 pazienti e i risultati sono molto incoraggianti, soprattutto per quanto riguarda le risposte virologiche e biochimiche combinate e la negatività della viremia.

I dati confermano quelli dello studio registrativo: più si prolunga il trattamento con bulevirtide 2 mg in monoterapia, maggiori sono i tassi di successo e di risposta virologica e biochimica. Inoltre, questi studi suggeriscono che il trattamento potrebbe ridurre gli eventi epatici correlati, soprattutto nei pazienti cirrotici, con bassi tassi di scompenso epatico nei primi 2-3 anni di terapia antivirale.
Questi dati sono rafforzati anche dal profilo di sicurezza del farmaco. È importante considerare che i pazienti in pratica clinica sono spesso più anziani, con una malattia più avanzata e diverse comorbidità. Sia lo studio europeo che quello multicentrico italiano confermano la sicurezza e la tollerabilità di questo farmaco anche nella pratica clinica, con solo lievi aumenti asintomatici degli acidi biliari e pochissimi pazienti che hanno dovuto sospendere il trattamento a causa di effetti collaterali” evidenzia Lampertico.

“Per quanto riguarda le combinazioni terapeutiche, l’anno scorso è stato pubblicato il primo studio che ha valutato l’associazione di interferone e bulevirtide a 2 mg (attualmente disponibile in Europa) e a 10 mg (non ancora disponibile). I risultati per la combinazione con 2 mg non sono stati particolarmente rilevanti, poiché i tassi di risposta erano simili a quelli ottenuti con l’interferone da solo. Invece, il dato più interessante riguarda la combinazione con 10 mg, che potrebbe diventare disponibile nel 2026.

Sul fronte della sospensione del trattamento, esistono due scenari. Il primo è l’interruzione precoce (dopo 1-2 anni) per mancata risposta virologica e biochimica, una condizione rara che nella nostra casistica riguarda circa l’1-2% dei pazienti. Il secondo scenario, più promettente, riguarda invece i pazienti che rispondono molto bene al trattamento.
Abbiamo presentato dati preliminari su questo aspetto al congresso e altri saranno esposti nelle prossime settimane al congresso europeo di Amsterdam. In particolare, gli studi di questi nuovi dati evidenziano che tutti i pazienti hanno sospeso il trattamento dopo tre anni, indipendentemente dalla risposta virologica, e sono stati seguiti per 1-2 anni senza terapia. I risultati mostrano che il 15-20% dei pazienti mantiene la negatività della viremia per 48-96 settimane dopo la sospensione, suggerendo una possibile guarigione completa dall’epatite delta.
Un dato particolarmente interessante è che questi pazienti non guariscono dall’epatite B, il che indica che potrebbe essere possibile eliminare l’epatite delta con un trattamento di durata finita (tre anni di bulevirtide) senza necessariamente eliminare l’infezione da HBV” aggiunge Lampertico.
Parallelamente, sono in fase di sviluppo nuove strategie terapeutiche che mirano a colpire direttamente il virus dell’epatite delta, tra cui gli inibitori dell’entry del virus e i nuovi RNA terapeutici, che potrebbero offrire ulteriori opzioni nei prossimi anni.

Epatite C: verso l’eliminazione
Uno studio internazionale pubblicato su Journal of Hematology ha evidenziato che, a livello globale, circa 13 milioni di pazienti sono stati trattati, di cui 11 milioni appartenenti a specifici gruppi razziali. L’Italia ha trattato il maggior numero di pazienti in Europa (272.000), ma solo il 30% della popolazione stimata è stata diagnosticata e curata. Si stima che 180.000 persone necessitino ancora di cure.
L’impatto del trattamento è evidente: la riduzione delle ospedalizzazioni per cirrosi e carcinoma epatico è stata del 20% e del 37%, rispettivamente. Inoltre, dati ISTAT confermano una diminuzione della mortalità per tumore al fegato tra il 2018 e il 2022.

Per raggiungere gli obiettivi dell’OMS di eliminazione dell’HCV, è essenziale ampliare lo screening gratuito a livello nazionale. Attualmente, le fasce d’età coperte dallo screening escludono il 66-73% dei soggetti infetti. L’intelligenza artificiale può supportare l’identificazione dei pazienti a rischio, migliorando il valore predittivo positivo fino al 93%.
“L’accesso a farmaci pangenotipici ha reso la vita dei pazienti con epatite C molto più semplice. Oggi disponiamo di terapie altamente efficaci che permettono un approccio “test and treat”, caratterizzato da una grande potenza antivirale e da un’elevata “forgiveness”, ovvero la capacità di mantenere l’efficacia anche in caso di occasionali dimenticanze nell’assunzione delle dosi.

Questi farmaci sono anche estremamente facili da usare, tanto che in alcuni Paesi, come la Francia, possono essere prescritti non solo dagli specialisti, senza compromettere in alcun modo la risposta virologica sostenuta. Inoltre, la possibilità di somministrarli in un’unica compressa una volta al giorno semplifica ulteriormente la vita dei pazienti, senza influenzarne lo stile di vita, indipendentemente dalla popolazione di riferimento” sottolinea la prof.ssa Alessandra Mangia, Responsabile Unità Dipartimentale di Epatologia IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza-San Giovanni Rotondo (FG).

“Le drug-drug interactions (DDI) possono rappresentare una controindicazione significativa, come evidenziato dall’Università di Liverpool, che fornisce strumenti di valutazione del rischio prima dell’inizio della terapia. Un’interazione isolata con un singolo farmaco potrebbe non rappresentare un problema, ma la somministrazione concomitante di più farmaci può generare un quadro complesso con potenziali effetti collaterali.
Un esempio è lo studio condotto in Spagna su 1.600 pazienti, di cui la metà trattati con il regime sofosbuvir/velpatasvir. Lo studio ha mostrato che il rischio di interazioni farmacologiche multiple riguardava 123 pazienti, ma il regime sofosbuvir/velpatasvir ha evidenziato un rischio inferiore rispetto ad altri trattamenti pangenotipici, garantendo una maggiore sicurezza nei pazienti in politerapia.
Per raggiungere l’obiettivo di eliminazione dell’epatite C, l’azione più incisiva sarebbe l’estensione delle fasce di età per lo screening nazionale gratuito.

Attualmente, i pazienti over 50 non hanno accesso a uno screening gratuito, nonostante sia dimostrato che la maggior parte delle infezioni non diagnosticate si trova proprio in questa fascia d’età” spiega Mangia.
In Italia, progetti mirati hanno incrementato significativamente la diagnosi e il trattamento dell’HCV nelle popolazioni a rischio.

Conclusione
Grazie ai progressi scientifici, oggi abbiamo strumenti più efficaci per trattare CBP, epatite delta ed epatite C. Tuttavia, resta fondamentale migliorare la diagnosi precoce e garantire l’accesso alle cure per tutti i pazienti. Screening estesi, nuove terapie e un approccio centrato sul paziente sono le chiavi per il futuro della medicina epatica. L’obiettivo non è solo prolungare la sopravvivenza, ma migliorare la qualità della vita dei pazienti, offrendo loro una speranza concreta di guarigione.