Demenza: in Italia 1,5 milioni di pazienti ma la cifra è sottostimata


In Italia la stima è di circa 1,5 milioni di persone con demenza, ma gli ultimi buoni studi sulle demenze nel nostro Paese risalgono alla fine del ‘900

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La demenza è un lento e progressivo declino della funzione mentale che include memoria, pensiero, giudizio e capacità di apprendimento. Si manifesta per lo più nelle persone di età superiore ai 65 anni, ma può colpire anche prima. Tuttavia, la demenza è una patologia e non fa parte dell’invecchiamento normale: molte persone di oltre 100 anni non ne soffrono. Solitamente la demenza si manifesta come un disturbo cerebrale senza altre cause (il cosiddetto ‘disturbo cerebrale primario’), ma può essere causata da molte patologie. Tra le cause comuni di demenza c’è la malattia di Alzheimer: circa il 50% degli anziani che soffrono di demenza, infatti, ha la malattia di Alzheimer. A parlarne è stato il professor Sandro Sorbi, ordinario di Neurologia presso l’Università di Firenze, tra i maggiori ricercatori italiani sull’Alzheimer, in occasione del 62esimo Congresso Nazionale della SNO – Scienze Neurologiche Ospedaliere, a Firenze.
Ma quante persone oggi in Italia sono colpite da demenza? I numeri della patologia, ad oggi, si basano solo su stime. “Gli ultimi buoni studi sulle demenze nel nostro Paese risalgono alla fine del ‘900. Fare studi epidemiologici è estremamente costoso e nessuno ci investe più- ha fatto sapere il professor Sorbi- La stima in Toscana, dove lavoro, è abbastanza rilevante: si parla di circa 100mila pazienti affetti da demenza. In Italia la stima è invece di circa 1,5 milioni di persone, ma nessuno li ha ‘contati’ negli ultimi anni per i motivi che dicevo. La cifra secondo me è sottostimata perché considera le forme conclamate, mentre ormai la ricerca e la clinica si occupano sempre di più di pazienti nella fase precocissima. Questo perché le future nuove terapie, già in uso negli Stati Uniti, anche se non sappiamo se sono realmente efficaci, sono rivolte a pazienti ‘preclinici’, cioè con minimi segni clinici ma evidenza e test di malattia”. Le proiezioni demografiche mostrano una progressione aritmetica di tale indicatore fino a giungere nel 2051 per l’Italia a 280 anziani per ogni 100 giovani. Sono pertanto in aumento tutte le malattie croniche, in quanto legate all’età, e tra queste le demenze.
La demenza si manifesta per lo più in soggetti over 65, ma può colpire anche prima. D’altronde la storia delle demenze “inizia con i giovani”, da quando nel 1906 lo psichiatra e neuropatologo Alzheimer descrisse la malattia per la prima volta in una donna di 46 anni. “I primi pazienti con Alzheimer studiati all’inizio del ‘900 erano tutti relativamente giovani- ha raccontato il professor Sorbi- vero è che gli anziani morivano prima e non arrivavano a 90 anni di età. Oggi le demenze sono malattie ad alta incidenza nel corso della vita, in particolare in quella adulta. Ma di fatto esistono le demenze giovanili, compresa la forma ad esordio precoce della malattia di Alzheimer. Anche in questo caso, però, ci sono purtroppo pochi studi epidemiologici”.
Le forme più comuni di demenza sono alcune degenerative, come la malattia di Alzheimer, oppure le demenze ‘fronto-temporali’, forme degenerative che tendono ad essere più precoci rispetto all’Alzheimer, e le demenze associate a parkinsonismi. Capitolo a parte è rappresentato invece dalle cosiddette ‘demenze evitabili’, in particolare tre: la demenza alcolica, la demenza traumatica e la demenza da carenza di vitamina B1. “La prima, la demenza alcolica, esiste in tutto il mondo compreso il nostro Paese. Per questo- ha detto il professor Sorbi- si raccomanda ai giovani di non bere alcolici tutti i giorni e di farlo con moderazione, perché c’è il rischio di favorire lo sviluppo delle demenze. Ricordiamo che la Organizzazione Mondiale della Sanità non pone limiti particolari perché le prove dimostrano che la situazione ideale per la salute è non consumare affatto alcol. La seconda è la demenza traumatica: piccoli traumi ripetuti causano dei meccanismi didegenerazione che possono condurre, dopo anni, alla demenza. A tale proposito le Federazioni Calcistica degli Stati Uniti d’America e del Regno Unito hanno vietato i colpi di testa nei giovani apprendisti giocatori che hanno meno di 10 anni. La terza demenza evitabile, quella da carenza di vitamina B1, è più frequente nella popolazione adulta anziana, con cattiva alimentazione e cattivo assorbimento”. Infine, fra le demenze secondarie dobbiamo ricordare le demenze vascolari, ed anche il rischio per queste forme può essere ridotto con un buon controllo dei ben noti fattori di rischio vascolare, l’ipertensione arteriosa, l’iperlipidemia, il diabete, la fibrillazione atriale, il sovrappeso, lo scarsa attività fisica.
Ma ad essere colpiti dalle demenze, sono in maggior numero gli uomini o le donne? Anche di questo ha parlato l’esperto: “La numerosità è maggiore nelle donne perché l’incidenza aumenta con l’età e sappiamo che un numero maggiore di donne, rispetto agli uomini, arriva fino ai 90 anni d’età. Quanto alla percentuale, però, non è molto diversa tra i due sessi. Le demenze giovanili sono invece più frequenti negli uomini, perché è tra loro che alcol e traumi sono più diffusi”. Parlando dei primi segnali di riconoscimento della patologia, tutte le demenze “iniziano con poco”, purtroppo e per fortuna: purtroppo per il clinico, per fortuna per il paziente. “Iniziano con un difetto di una delle funzioni cognitive, un tempo si diceva sempre con la memoria, ma non è così- ha spiegato il neurologo- ci sono demenze fronto-temporali, che iniziano per esempio nei lobi frontali, per chi i primi sintomi possono essere un cambiamento del carattere, una minore attenzione alla cura personale, una minore capacità di concentrazione, di attenzione o di programmazione”.
Inoltre, ci sono le demenze che iniziano con i disturbi del linguaggio: “In alcune persone il linguaggio diventa povero e si ‘perdono’ le parole: si tratta dei tipici pazienti che dicono ‘mi dai quella cosa?’ oppure ‘quella cosa per fare quelle cose’, anche se memoria e orientamento sono buoni nelle fasi iniziali. Altri pazienti perdono invece l’uso semantico del linguaggio, quindi se gli dici ‘cavatappi’ loro pensano ad un cacciavite, perché per loro il termine rientra nel capitolo degli attrezzi ma non individuano esattamente l’oggetto nella sua precisione”. E ancora, esistono demenze con un disturbo dell’esplorazione spaziale: “Proprio di recente un mio paziente mi raccontava che vedeva un foglio sul tavolo, lo voleva prendere ma non capiva bene dove fosse- ha raccontato Sorbi- Quindi da un lato vedo il foglio dall’altro non lo capisco, questo perché la parte posteriore del cervello che si occupa di esplorare lo spazio per raccontarci cosa c’è ce lo racconta male”.
La nostra, intanto, è una società caratterizzata da una perenne e frenetica corsa, con donne e uomini oggi sempre più affannati. Qual è il confine tra stress e patologia? O meglio: quando iniziare a preoccuparsi se, durante una giornata impegnativa, ci si dimentica di una parola oppure di fare qualcosa? “Questo è un aspetto molto interessante– ha commentato il neurologo- anche perché noi sempre di più vediamo in ambulatorio persone che ci raccontano di fare molte cose ma sempre con più fatica. Quello che possiamo fare è studiarle: come prima cosa va fatta una valutazione neurocognitiva estesa per controllare se i punteggi della valutazione sono adeguati per livello di scolarità, competenze ed età del soggetto. Poi il test va ripetuto, perché un soggetto funzionante bisogna studiarlo in maniera approfondita. Dagli inizi degli anni Duemila abbiamo individuato una nuova categoria di ‘non malati’, con disturbo soggettivo di memoria, alcuni dei quali potrebbero essere nella fase iniziale di malattia. Li stiamo studiando per cercare di cogliere aspetti che possano permettere di predire chi andrà incontro ad una malattia oppure no”.
Fatta questa premessa, è “molto difficile“, secondo l’esperto, individuare chi effettivamente è all’inizio di una malattia oppure è semplicemente stanco e stressato. Tra i fattori di protezione da qualunque forma di demenza, è emerso ancora dalla relazione del professor Sorbi, c’è la scolarizzazione. “Chi è più scolarizzato è a maggior rischio di avere una patologia ma non di manifestarla, perché il nostro cervello compensa- ha fatto sapere- Se al soggetto non viene in mente la parola ‘bicchiere‘ può dire ‘calice’. Mi è capitato di avere pazienti ‘geniali’, parliamo di scienziati di alto livello internazionale, che lamentavano il fatto di percepire di non funzionare più come prima. Il paziente in questione aveva quindi la percezione di un minimo difetto ma in un livello altissimo: ai test neuropsicologici otteneva i punteggi più alti ma la sua Pet cerebrale mostrava già aree di ipometabolismo nelle regioni che vengono colpite inizialmente dalla malattia di Alzheimer e un anno dopo la malattia era clinicamente manifesta. Lui aveva insomma percepito qualcosa che i nostri test, fatti per essere applicati alla popolazione generale, non erano in grado di documentare”.
Un problema, questo, dunque legato all’alta scolarizzazione. “Ma c’è un altro elemento molto importante, evidente negli studi di tutto il mondo: la scolarizzazione ritarda l’insorgenza della clinica della malattia. Io potrei avere la patologia Alzheimer che già sta aggredendo il mio cervello ma stare ancora clinicamente bene, mentre se non fossi stato istruito magari cinque anni fa già avrei avuto i primi disturbi di memoria. La scolarità- ha spiegato il professore- è uno degli elementi più provati di protezione da qualunque forma di demenza: quello che noi pensiamo è che forse ritarda l’insorgenza, ma potrebbe darsi anche che protegga”. Altri fattori che proteggono sono la socializzazione, svolgere un’attività lavorativa che dia soddisfazioni e fare attività fisica. “Sul benessere dell’attività fisica esiste un modello animale- ha fatto sapere Sorbi- se mettiamo in due gabbie distinte due topi con la stessa mutazione genetica che causa in questi animali una forma di demenza e ad uno, il ‘topo maratoneta’, diamo un tapis roulant mentre all’altro solo cibo, il disturbo cognitivo viene al topo ‘pigro’ e non a quello maratoneta”.
Infine, il professor Sorbi ha voluto sottolineare un aspetto etico ma anche economico che riguarda i pazienti con demenze, ma soprattutto le loro famiglie: “In Italia le strutture residenziali per pazienti con demenza sono poche, quasi tutte private e costose: per una degenza si può spendere fino a 4- 5mila euro al mese. Esiste un contributo comunale e regionale che copre solo una piccola parte e solo quelle famiglie che hanno un reddito molto basso. È un problema sociale rilevante. Quanto all’aspetto etico, che segnalano le famiglie dei pazienti, anche attraverso le associazioni, è che seguire il paziente è demandato ai familiari. Ma una moglie o un figlio non è detto che si sentano sempre in grado o vogliano farlo. Il problema è che, di fatto, non c’è alternativa perché non c’è un’adeguata organizzazione dell’assistenza di questi pazienti”.