Missioni spaziali: per gli astronauti rischio più alto di mutazioni genetiche


Le missioni spaziali sottopongono il Dna gli astronauti a un maggior rischio di mutazioni, aumentando la probabilità che sviluppino neoplasie e malattie cardiache

satelliti tows

Lunghe missioni nello spazio sottopongono gli astronauti a tutta una serie di rischi per la salute, lo sappiamo. Questi effetti avversi, acuti e a lungo termine, dipendono non solo dalla durata ma anche dal tipo di volo, con conseguenze più o meni gravi a seconda che si tratti di missioni nell’orbita terrestre bassa (Leo) – dove il campo magnetico terrestre fornisce schermatura dalle radiazioni spaziali – o nello spazio profondo – dove questo scudo protettivo viene meno.

Perdita di densità osseaalterazioni neurovestibolari e atrofia muscolare sono alcuni di questi effetti. A essi, tuttavia, bisogna aggiungere anche le mutazioni, alterazioni del genoma che – come riporta un nuovo studio pubblicato il mese scorso su Communications Biology – gli astronauti hanno un maggior rischio di sviluppare, aumentando la probabilità di insorgenza di malattie cardiache e cancro durante la loro vita.

Per giungere a questa conclusione, il team di ricercatori guidato dalla Mount Sinai School of Medicine di New York (Usa) ha analizzato campioni di sangue, conservati a -80 °C da circa 20 anni, prelevati da 14 astronauti della Nasa che tra il 1998 e il 2001 hanno volato in missioni a bordo dello Space shuttle.

I soggetti coinvolti nello studio avevano condotto missioni relativamente brevi (in media 12 giorni), la loro età era di circa 42 anni e tutti avevano all’attivo due attività extra-veicolari. I loro campioni di sangue intero sono stati prelevati 10 giorni prima del volo (il campione controllo) e tre giorni dopo l’atterraggio (il campione test), e accuratamente conservati in attesa della loro analisi.

David Goukassian, professore di medicina al Cardiovascular Research Institute della Mount Sinai School of Medicine, e il suo team hanno scongelato questi campioni di sangue e li hanno sottoposti a una centrifugazione in gradiente di densità, una tecnica di laboratorio che permette di separare la frazione cellulare corrispondente ai globuli rossi e ai granulociti (neutrofili, basofili ed eosinofili) da quella corrispondente alle cellule mononucleate del sangue periferico umano (Pbmc). Da queste ultime cellule (linfocitimonociticellule dendritiche e cellule staminali del sangue) – hanno estratto il Dna, che hanno infine sequenziato e sottoposto a sofisticate analisi bioinformatiche per valutare la presenza di mutazioni. Lo schema del disegno sperimentale adottato nello studio lo potete vedere nella figura in alto.

Il risultato? Dal confronto tra campione test (dopo il volo) e campione controllo (pre-volo) è emerso che tutti i 14 astronauti presentavano mutazioni del Dna note come mutazioni somatiche, cioè alterazioni nella sequenza di Dna di una cellula del corpo o soma di un organismo – da cui il nome somatiche – e più nello specifico mutazioni a singolo nucleotide missensonon sensoframe-shift e di splicing.

Mutazioni di questo tipo si verificano sia casualmente che in risposta a vari fattori di stress sistemici e ambientali, e nella maggior parte dei casi non influiscono sul funzionamento cellulare. In altri casi, tuttavia – ad esempio quando a essere mutati sono sequenze di geni i cui prodotti – le proteine – regolano funzioni vitali della cellula, queste modifiche possono alterare il complesso meccanismo di regolazione cellulare, conferendo un vantaggio proliferativo e di sopravvivenza selettivo, in risposta al quale la cellula inizia a dividersi in maniera incontrollata, producendo copie di se stessa: un clone.

Se a essere interessata da queste mutazioni è una cellula staminale emopoietica, ovvero una cellula progenitrice di cellule del sangue, il fenomeno di produzione di questi cloni viene chiamato emopiesi clonale (clonal hematopoiesis, Ch), una condizione benigna – il più delle volte causata da fattori ambientali come l’esposizione alle radiazioni ultraviolette e a sostanze chimiche – che può però aumentare il rischio di una persona di sviluppare tumori del sangue e malattie cardiovascolari. Le mutazioni somatiche trovate dai ricercatori nello studio riguardavano proprio questo tipo di cellule e in particolare i geni coinvolti in questo processo, chiamati geni Ch-driver.

«Gli astronauti lavorano in un ambiente estremo in cui molti fattori possono provocare mutazioni somatiche, soprattutto le radiazioni spaziali, il che significa che c’è il rischio che queste mutazioni possano portare all’emopoiesi clonale. Dato il crescente interesse sia per i voli spaziali commerciali che per l’esplorazione dello spazio profondo, e dati i potenziali rischi per la salute derivanti dall’esposizione a vari fattori dannosi associati a missioni spaziali ripetute o di lunga durata – come un viaggio su Marte –, abbiamo deciso di esplorare, retrospettivamente, le mutazioni somatiche nella coorte di 14 astronauti», spiega Goukassian, primo autore dello studio.

Nello specifico, i ricercatori hanno identificato 34 mutazioni in 17 geni Ch-driver. Le mutazioni più frequenti sono state riscontrate nel gene TP53, la cui trascrizione produce un messaggio che viene tradotto in una proteina onco-soppressore, e nel gene DNMT3A, uno dei geni mutati più frequentemente nella leucemia mieloide acuta.

Si tratta di mutazioni, spiegano i ricercatori, la cui frequenza allelica variante (Vaf) – una misura della proporzione di molecole di Dna nel campione originale che porta la mutazione genica – è comunque inferiore al due per cento, la soglia tecnica affinché si possa parlare di emopoiesi clonale a potenziale indeterminato (Clonal hematopoiesis of indetermined potential, Chip), una condizione pre-cancerosa, età-dipendente, che predispone allo sviluppo di cancro sia ematologico che solido.

«Sebbene l’emopoiesi clonale che abbiamo osservato fosse di dimensioni relativamente ridotte», sottolinea Goukassian, «il fatto di aver individuato mutazioni a essa associate è stato sorprendente, data l’età relativamente giovane e la salute di questi astronauti. La presenza di queste mutazioni non significa necessariamente che gli astronauti svilupperanno malattie cardiovascolari o cancro, ma c’è il rischio che nel tempo ciò possa accadere, attraverso l’esposizione continua e prolungata all’ambiente estremo dello spazio profondo».

La ricerca del team segue studi precedenti (di cui già vi abbiamo parlato) che hanno utilizzato gli stessi campioni per identificare biomarcatori predittivi dei rischi associati alle missioni nello spazio – gli Rna lunghi non codificanti – all’interno di piccole vescicole cellulari chiamate esosomi, così da effettuare interventi terapeutici precoci che possono migliorare la qualità della vita degli astronauti.

«Attraverso questo studio, abbiamo dimostrato non solo che possiamo determinare la suscettibilità individuale degli astronauti a sviluppare malattie legate al loro lavoro ma anche l’importanza di uno screening precoce e continuo per valutare tale suscettibilità», conclude Goukassian. «È importante, ora, condurre studi retrospettivi e studi prospettici ben controllati che coinvolgano un gran numero di astronauti, per vedere come si evolve il rischio in base all’esposizione continua e quindi confrontare tali dati con i loro sintomi clinici e risultati di laboratorio. Questo ci consentirà di fare previsioni informate su quali individui hanno maggiori probabilità di sviluppare malattie in base ai fenomeni che stiamo vedendo e apre la porta ad approcci di medicina di precisione individualizzata improntati all’intervento precoce e alla prevenzione. La nostra raccomandazione è che la Nasa, e il suo team medico, facciano screening agli astronauti alla ricerca di mutazioni somatiche e possibile espansione clonale, o regressione della condizione, ogni tre o cinque anni e, non meno importante, anche negli anni del pensionamento, quando le mutazioni somatiche possono espandersi clonalmente e diventare Chip»

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