Telemedicina utile ma serve più formazione


Telemedicina, i dati della ricerca ISTUD: aumentano ascolto ed empatia, eccessivo carico su familiari, serve più formazione

telemedicina teleriabilitazione progetto remote

La telemedicina e la sanità digitale sono la soluzione trasversale promosse dalle istituzioni (AGENAS, Ministero della Salute e dalle Istituzioni Regionali)  per il rilancio del Sistema Sanitario Nazionale post covid, potendo disporre delle ingenti risorse nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (15, 6 i  miliardi allocati per la missione “Salute” del Piano, di cui 8,6 miliardi per innovazione e digitalizzazione e 7 miliardi per reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale).

L’obiettivo della ricerca ISTUD sulla Telemedicina, presentata in un evento online con i professionisti del sistema salute, è stato quello di comprendere il vissuto reale e la narrazione delle persone che hanno utilizzato la telemedicina e, in generale gli strumenti tecnologici, durante la pandemia SARS-COV2.

Sono state raccolte, da luglio del 2021 a marzo del 2022, 110 testimonianze coinvolgendo tutti gli attori dell’ecosistema salute: pazienti, caregivers, professionisti sanitari, aziende del Life Science, ricercatori e decisori della politica sanitaria.

Dalle analisi delle narrazioni sono emersi numerosi aspetti positivi nell’utilizzo della tecnologia a sostegno della medicina. Un esempio che colpisce particolarmente è la capacità di trasmettere empatia anche attraverso lo strumento a distanza; e in molti casi l’empatia è stata maggiormente esperita in differita, perché a detta dei curanti, “riuscire a focalizzarsi solo sul viso della persona malata è stato utile per connettersi sulle narrazioni ed emozioni del paziente”.

Tra gli aspetti problematici si ritrova in particolare l’impossibilità dell’utilizzo della telemedicina per le prime visite o per le urgenze; quindi, nei casi in cui vi è la necessità di un vero e proprio contatto fisico.

Interrogarsi sull’umanizzazione degli strumenti tecnologici e sulla necessità di fruire delle opportunità di telemedicina è estremamente importante, ma la domanda di partenza, sostiene il dott. Fabrizio Gervasoni, membro del Consiglio direttivo dell’Ordine dei Medici di Milano e provincia, medico fisiatra dell’azienda ospedaliera Sacco-Fatebenefratelli, è: “Noi medici, saremo in grado di rimanere clinici, di avere un contatto col malato, una prossimità col paziente, anche in un setting come quello della telemedicina, in cui “tele” rappresenta di per sé una distanza?” La sfida è riuscire a comprendere come, attraverso i linguaggi dei medici, si possa mantenere la percezione dell’empatia col paziente.

Dalla ricerca realizzata da ISTUD Sanità e Salute si evince che l’empatia è un elemento molto presente se si lavora sulla formazione nella sanità digitale, l’umanizzazione rimane e i pazienti si sentono ascoltati e compresi anche a distanza. Fondamentale è, come spiega Maria Giulia Marini, Direttore Scientifico dell’Area Sanità e Salute di ISTUD, non disumanizzarsi e “far sì che la relazione medico-curato resti una relazione rilevante sempre, non solo, purtroppo come spesso registriamo dalle narrazioni, quando il paziente è fragile”.

Lo strumento della telemedicina è utile in particolare tra una visita e l’altra; utile, dunque, al sostegno e supporto di una malattia cronica che ha bisogno di continui controlli proprio per superare i problemi logistici e burocratici di cui la sanità pubblica dispone.

Tra gli attori coinvolti, quelli meno soddisfatti della telemedicina e che hanno opposto maggiori resistenze sono i caregivers, i quali non solo sono coloro che si prendono cura del malato, fornendo assistenza fisica e psicologica, ma devono preoccuparsi anche del setting dello spazio, dell’organizzazione della luce, del computer, della videocamera e in generale della connessione a distanza. E allora, la soluzione proposta da Francesca Moccia, vicesegretaria generale di Cittadinanzattiva, è di provare a coinvolgere più caregivers che si prendono cura della persona malata, proponendo la partecipazione attiva della medicina di prossimità, integrando nel quadro di cura anche il ruolo del medico di medicina generale, che spesso, sostiene Maria Giulia Marini, è a rischio, se le cure partono solo dall’ospedale per raggiungere direttamente il domicilio del paziente, di essere tagliato fuori dalla continuità assistenziale.

Dal lato della persona malata, sostiene Massimo Caruso, membro del Consiglio Direttivo di AiSDeT, Associazione Italiana di Sanità Digitale e Telemedicina, la telemedicina è semplificativa, riduce le distanze e le pratiche ed è un modo diverso di organizzare dei percorsi di assistenza che sussistono tra la struttura sanitaria e il paziente: “È importante partire dal management sanitario per riorganizzare i percorsi, non bastano solo singole esperienze locali di reparto”.

Si riscontra, inoltre, in particolare dalle narrazioni dei professionisti sanitari, che lo strumento tecnologico di WhatsApp è utile, ma problematico, poiché non è né regolarizzato né monitorato. Questo lo rende uno strumento invasivo e infiltrante, non connesso più alla telemedicina intesa come soluzione trasversale che accorcia le distanze e riduce le problematiche burocratiche, ma risulta esser diventato uno strumento che non ha uno spazio e un tempo standardizzato. È necessaria la regolamentazione dello strumento tecnologico, afferma Marco Zibellini, direttore scientifico di Farmindustria, che sia in grado di unire l’ecosistema di tutti gli attori coinvolti: pazienti, caregivers, professionisti sanitari e decisori; “È importante visionare la parte terapeutica, ma è altrettanto rilevante la gestione dei dati del paziente e il suo fascicolo sanitario, garantendogli privacy e sicurezza dei dati.”

A tal proposito Farmindustria, in collaborazione con AGENAS, Agenzia Nazionale per i servizi sanitari nazionali regionali, ha pensato di creare una piattaforma digitale di telemedicina che preveda un accordo tra tutti gli attori sociali coinvolti in cui “la sanità è direzionata verso la connessione tra prevenzione, accesso alle cure, cure effettive, e di follow-up” – afferma Laura Franzini, medical director di Chiesi Italia. Vi è una vera integrazione del sistema sanitario che deve riuscire a coniugare l’efficacia ed efficienza verso l’umanizzazione delle cure.

La telemedicina è uno strumento medico ed un valore aggiunto, ma “deve uscire dal modello chiavi in mano, proposto in genere dalle imprese alle aziende sanitarie per arrivare ad un modello concordato, dove vi è maggiore spazio di flessibilità, di soluzioni tecnologiche adatte al singolo contesto di cura e alle diverse casistiche di pazienti da curare”, sostiene Lorenzo Terranova, direttore Confindustria DM. “Avendo letto le narrazioni si capisce che c’è bisogno di una regia pensante e non solo degli automatismi burocratici”.

Dalla ricerca è emerso che l’insegnamento della telemedicina ai professionisti sanitari deve essere attivo ed esperienziale e non veicolato solo attraverso linee guida passive che rimangono disattese: infatti è ancora forte la resistenza al cambiamento in molti professionisti sanitari. La formazione dei medici diventa così un’opportunità terapeutica che integra la valutazione clinica effettuata in presenza. Le narrazioni raccolte ci indicano che la tecnologia deve essere semplice, il linguaggio utilizzato deve comunicare trasparenza, chiarezza ed univocità; i medici rispondenti hanno scritto che non si può usare la parola “smaterializzazione”, oggi ad indicare la ricetta medica, un domani ad indicare il paziente.

Risulta necessario ampliare gli orizzonti e ambire ad una formazione che coinvolga l’intera cittadinanza, dai pazienti giovani a quelli più senior, dai medici più tecnologici a quelli meno esperti, una formazione non solo passiva dell’utilizzo della tecnologia, ma una formazione attiva che includa anche il change management.

Dalla testimonianza sul campo di BTS Engineering si evince che tramite la telemedicina e la teleriabilitazione vi sia maggior connessione tra gli attori coinvolti, in quanto la piattaforma digitale riesce a raggiungere maggior numero di pazienti sul territorio e risulta, così, più sostenibile. La difficoltà, afferma Cristina Fiorucci, membro di BTS Engineering, sta nel comprendere quale sia il miglior dosaggio dell’utilizzo tecnologico, senza che si sostituisca al medico curante e all’approccio clinico. In questo caso la teleriabilitazione deve essere intesa esclusivamente come strumento e mezzo che non intralcia la metodologia clinica, ma che l’accompagna e la integra nella costruzione di un benessere psicofisico e sociale.

Buone notizie, quindi, la pandemia ha fatto da catalizzatore per la Sanità Digitale, che vuole essere accessibile a tutti indipendentemente dalle distanze geografiche e al contempo sostenibile economicamente: ora è necessario rivedere i percorsi mantenendoli “blended”, sia in presenza che a distanza, e non pensare che la telemedicina sia la panacea che offre le soluzioni ai problemi della sanità italiana.