Covid: all’ICAR 2022 il punto sul ruolo di remdesivir


I pazienti ospedalizzati con Covid e trattati con remdesivir hanno avuto una riduzione statisticamente significativa della mortalità e una migliore sopravvivenza

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Remdesivir, il primo antivirale autorizzato in Europa per il trattamento del Covid-19, ha dimostrato la sua efficacia in tre studi clinici randomizzati e controllati e nelle esperienze di pratica clinica reale. I pazienti ospedalizzati con Covid e trattati con remdesivir hanno avuto una riduzione statisticamente significativa della mortalità e una migliore sopravvivenza rispetto ai controlli. Se ne è discusso alla recente Italian Conference on Aids and Antiviral Research (ICAR) 2022.

Un altro trial di fase III ha rivelato un’elevata efficacia del farmaco nel ridurre il tasso di ospedalizzazione o di mortalità rispetto al placebo, risultati che hanno portato alla recente indicazione per il trattamento dei soggetti non in ossigeno-terapia a rischio elevato di malattia grave.

Il congresso è stata un’occasione per fare il punto sull’evoluzione del profilo del paziente adatto al trattamento con remdesivir e per presentare un aggiornamento scientifico sui dati di efficacia.

L’evoluzione del profilo del paziente Covid-19 
Negli ultimi tre anni questo virus ha messo a durissima prova il sistema sanitario nazionale ed è infatti al quarto posto tra le condizioni che hanno determinato un eccesso di mortalità in Italia. Fortunatamente non ha raggiunto i livelli della spagnola ma la partita non è ancora finita, quindi forse questi numeri saranno destinati ancora ancora crescere anche se, grazie alle mutazioni del virus e a una serie di interventi qualificati dall’atc nazione, oggi la malattia assunto delle connotazioni molto diverse rispetto al recente passato.

L’ultimo report dell’Oms, in un ambito di sottostima globale del problema, riporta l’impressionante numero di quasi 600 milioni di casi di malattia confermata, ma conclude affermando che “nonostante la malattia continui a progredire e abbia progressivamente coinvolto tutte le parti del mondo, possiamo ipotizzare che l’impatto in termini di mortalità della futura trasmissione del virus sia meno drammatico, grazie al costante adattamento dei vaccini ai nuovi antigeni, all’avvento degli antivirali e all’aumento delle nostre conoscenze rispetto alle modalità comportamentali”.

IL vaccino rimane l’arma fondamentale, ma i progressi nella copertura vaccinale non sono uguali in tutto il mondo. La percentuale di soggetti vaccinati in Africa non supera il 15% e questa in prospettiva è sicuramente la fonte di preoccupazione maggiore. Oggi il mondo è completamente nelle mani della variante Omicron che ha caratteristiche di infettività e di trasmissibilità molto elevate, quindi circola molto rapidamente ma fortunatamente ha intrinsecamente una patogenicità minore.

Un concetto esplicitato alcuni mesi fa in uno studio sull’evoluzione delle varianti in una regione con bassa copertura vaccinale ma con un alto impatto di pregressa infezione come il Sudafrica, dove analizzando i tassi di ospedalizzazione nell’era pre-omicron e nell’era post-omicron si evince una incidenza di ospedalizzazioni ridotta di due terzi e un’incidenza di mortalità ridotta di un logaritmo.

Una recente piccola pubblicazione francese ha mostrato le caratteristiche di 220mila pazienti nelle cinque ondate che si sono che si sono succedute. Nella prima ondata il numero di pazienti era sicuramente minore, avevano un’età media più alta (la percentuale di soggetti sotto i 40 anni era quasi la metà rispetto all’ondata attuale), i tassi di ospedalizzazione erano decisamente più elevati, così come quelli di afferenza alle strutture di terapia intensiva. Un risultato che si colloca in un contesto di alta copertura vaccinale e supporta il concetto che le caratteristiche di omicron probabilmente sono quelli di un virus meno aggressivo.

Lo studio più qualificato e più interessante che ribadisce la diversa connotazione assunta dalla malattia è stato pubblicato sulla rivista Nature Medicine e fa sostanzialmente una valutazione comparativa tra i casi con le varianti delta e omicron da dicembre 2021 a febbraio 2022. Ne emerge una riduzione estremamente significativa in termini di ricoveri in ospedale di pazienti sintomatici, necessità di terapia intensiva e mortalità. Comparando invece le varianti ba1 a ba2 non emergono delle sostanziali differenze in termini di impatto clinico. Gli autori concludono affermando che non può essere solo la vaccinazione che spiega queste differenze significative tra le varianti, ribadendo il concetto che una minore aggressività sia una caratteristica intrinseca di omicron.

«Quindi, in definitiva, omicron è attualmente il virus con cui abbiamo e rispetto al quale dobbiamo prendere tutte le misure di contenimento e di gestione dell’epidemia, ovviamente molto diverse da quelle adottate con le varianti precedenti dove, a causa dell’impatto sull’ospedalizzazione, l’organizzazione sanitaria era fortemente ospedalocentrica» ha sintetizzato nella sua relazione il professor Pierluigi Viale, Policlinico S. Orsola, Bologna. «Oggi che abbiamo una circolazione di un virus molto diverso dai precedenti dobbiamo rivedere la nostra organizzazione».

«Nonostante siano passati solo tre anni e la curva di apprendimento sia stata molto breve, la campagna vaccinale, i nuovi farmaci antivirali e una maggiore conoscenza del virus sono le armi che possiamo utilizzare» ha continuato. «Concettualmente potremmo molto semplificare l’approccio gestionale, affermando che oggi gli anticorpi monoclonali sono fondamentalmente indicati in attività di prevenzione, gli immunomodulatori speriamo di non doverli usare perché sono la terapia della malattia avanzata e gli antivirali sono invece l’arma più efficace per il trattamento precoce, che ne garantisce la maggior efficacia».

Molti dati dimostrano come una maggiore carica virale comporta un rischio maggiore di evoluzione della malattia verso forme più gravi e conosciamo il problema dei pazienti con una lunga sopravvivenza del virus nelle loro nelle vie aeree superiori, quindi in questo contesto gli antivirali rappresentano una un’arma assolutamente importante.

Difficile da quantificare in termini di efficacia perché usiamo questi farmaci su una popolazione che non ha una malattia grave e soprattutto necessitano campioni di grandi dimensioni per poter verificare l’impatto positivo. Nonostante questo gli antivirali si sono progressivamente affermati come un’opzione terapeutica importante nelle fasi iniziali della malattia, considerato anche il fatto che non solo non risentono delle mutazioni. Come nel caso di remdesivir, che è stato l’antesignano di questa categoria, che agisce sulla Rna polimerasi e non risente quindi delle differenze tra le varianti, mantenendo la sua efficacia a dispetto delle mutazioni del virus.

La partita con il Covid è ancora lunga; rimangono molte domande senza risposta, questioni importanti come l’adattamento dello screening, della quarantena e dell’isolamento alla nuova evoluzione del virus, il problema dell’home Covid che rimane un lato oscuro della gestione della malattia, il problema della gestione della malattia nei pazienti immunocompromessi, così come il mistero dei pazienti che rimangono a lungo in terapia intensiva e che presentano una sindrome on/off che continua ad accendersi e spegnersi senza che ci sia una correlazione evidente con una super infezione batterica.

«Non sappiamo se una terapia antivirale precoce potrà avere un impatto anche su questi unmet needs. Sicuramente un futuro ambito di ricerca sulla terapia antivirale precoce sarà proprio quello di valutare se l’utilizzo di questi farmaci avrà un impatto sulle complicanze che tuttora continuiamo a vedere» ha concluso.

Remdesivir nei pazienti gravi: nuove evidenze Real World 
Siamo partiti con il Covid conoscendo molto poco di questa malattia e abbiamo avuto come primo farmaco remdesivir, e ricordo che i primi pazienti in cui lo utilizzai erano intubati e ventilati in unità di terapia intensiva.

All’epoca non sapevamo bene che questa malattia nasce come una malattia virale in cui si innesca un meccanismo infiammatorio che porta a una malattia infiammatoria grave, quindi il paziente con una ARDS polmonare (sindrome da distress respiratorio acuto) che poi finisce intubato in terapia intensiva è un malato in cui si creano questi fenomeni di tempesta di citochine che portano a un danno polmonare così grave che necessita di un approccio aggressivo anche in termini di immunosoppressione.

Quando il malato arriva a questo livello di fenotipo infiammatorio molte previsioni sull’outcome sono assolutamente aleatorie, cioè i malati muoiono per la malattia ma muoiono per le complicanze degli interventi che vengono loro somministrati.

In questa situazione estremamente complessa oggi conosciamo l’importanza di impedire che l’infezione evolva da una fase non infiammatoria precoce a una infiammatoria più grave che porta a una ARDS polmonare.

Oggi remdesivir non è più posizionato come all’inizio sul malato grave ricoverato in terapia intensiva, ma nelle ultime linee guida viene raccomandato nei malati che hanno una polmonite e che necessitano di ossigeno supplementare, ma che non hanno bisogno di ossigeno ad alti flussi o di ventilazione meccanica invasiva o non invasiva.

Nel tempo i trial randomizzati pubblicati sull’utilizzo di remdesivir hanno portato a dati a volte discordanti, ma nel frattempo si sono accumulate molte evidenze basate sulla pratica clinica reale.

È chiaro che il trial randomizzato rappresenta e rimane lo schema del disegno di studio metodologicamente più valido per ottenere informazioni sull’attività di un farmaco. È stato evidente a tutti che la conduzione studi randomizzati nel Covid è una vera sfida perché è molto difficile che non risentano della contaminazione di condizioni che in qualsiasi altra condizione sarebbero stati fattori di esclusione. Il malato grave che finisce unità di terapia intensiva con Covid ha tutti i requisiti per essere escluso da qualsiasi trial con qualsiasi altro farmaco, quindi è difficilissimo valutare le risposte soprattutto quando si utilizzano endpoint molto variegati.

Il problemi nell’interpretazione dei risultati su remdesivir sono legati al tipo di outcome: alcuni hanno considerato il tempo alla guarigione, altri la mortalità o la durata dell’ospedalizzazione, abbiamo iniziato a condurre trial su malati gravi poi siamo passati a pazienti con malattia lieve e moderata. Non ultima la questione del timing, dato che inizialmente remdesivir veniva utilizzato da 0 a 10 giorni o a 15 giorni indipendentemente dall’insorgenza dei sintomi, per capire col tempo che questo è un parametro estremamente importante.

In termini numerici, tra gli studi più significativi da un punto di vista dell’esperienza real life, un trial danese ha preso in esame circa 2.700 malati nel quale circa 1.000 hanno ricevuto uno standard of care secondo il protocollo locale e gli altri lo standard più remdesivir e desametasone. Non sono emerse differenze significative tra i gruppi di trattamento in termini di parametri di base, ma va notato che i pazienti sottoposti all’antivirale erano malati che avevano più spesso una polmonite alla radiografia quindi si tratta di un utilizzo in soggetti con un quadro radiologico parzialmente negativo all’ingresso (il 95% necessitavano di ossigenoterapia supplementare vs il 45% di quelli sottoposti a terapia standard).

I risultati hanno mostrato un vantaggio in termini di progressione all’insufficienza respiratoria che necessitava della ventilazione meccanica nel gruppo remdesivir e una riduzione dell’incidenza cumulativa del rischio di ventilazione meccanica.

La nostra esperienza, dato le raccomandazioni Aifa indicavano l’utilizzo di remdesivir entro 10 giorni dall’inizio dei sintomi, polmonite con necessità di ossigenoterapia ma non ad alti flussi e ventilazione meccanica, ha riguardato questo tipo di pazienti valutati prospettivamente in termini di rischio di progressione, ossia della necessità di un livello di ventilazione ad alti flussi. Tra i 310 pazienti valutati, quelli che progredivano più facilmente erano trattati oltre 5 giorni dall’esordio dei sintomi.

L’utilizzo tardivo di remdesivir rappresentava un fattore predittivo dell’evoluzione verso una ventilazione invasiva o non invasiva (NIV, il supporto ventilatorio dato ai pazienti senza l’uso di un tubo endotracheale, che permette di evitare le potenziali complicazioni della ventilazione meccanica invasiva).

Risultati simili sono stati ottenuti da uno studio spagnolo che ha valutato 3.216 pazienti ospedalizzati e trattati con remdesivir, divisi in tre gruppi a seconda del timing di somministrazione dall’insorgenza dei sintomi: da zero a 3 giorni, da 4 a 6 giorni o più di 6 giorni. La differenza nei risultati è molto diversa con l’utilizzo nei primi 3 giorni, che si attenua ma rimane significativa con la somministrazione dopo 4-6 giorni mentre perde di significatività dopo i 6 giorni.

Nel frattempo sono stati pubblicati altri studi molto importanti in termini numerici. Un trial osservazionale su quasi 100mila persone ospedalizzate con Covid negli Stati Uniti ha rilevato un impatto positivo di remdesivir in termini di mortalità.

«In definitiva con remdesivir è fondamentale tener molto in conto il timing della somministrazione, dato che ha mostrato un effetto significativo se usato precocemente, quindi è inutile utilizzarlo su malati che arrivano in ospedale troppo tardi o quando la patologia è troppo avanzata, pena il rischio di non poter apprezzare alcun vantaggio» ha concluso il relatore Marco Falcone, Divisione di Malattie Infettive, Università di Pisa.

Remdesivir nei pazienti ad alto rischio
«La prima volta che ho usato remdesivir era il 5 febbraio 2020, sulla famosa coppia cinese, e da allora probabilmente non abbiamo fatto quel salto di qualità che la conoscenza dei meccanismi patogenetici e dei nostri pazienti avrebbero necessitato fin dall’inizio, perché forse era proprio comprendendo il meccanismo di azione di questo farmaco che avremmo dovuto capire che quanto prima lo avessimo utilizzato tanto migliore sarebbe stato l’impatto a livello pronostico» ha esordito Emanuele Nicastri, direttore della Divisione di Malattie Infettive ad Elevata Intensità di Cura dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, Roma. «Soprattutto nel periodo iniziale lo abbiamo utilizzato tardivamente e questo ha impattato molto sulla iniziale capacità di comprensione del suo impiego, che doveva essere precoce».

«Avremmo forse dovuto essere più coraggiosi prima e avremmo risparmiato sicuramente delle vite. Abbiamo perso tempo a trattare i pazienti a casa con terapie assurde quando fin dall’inizio avevamo a disposizione un farmaco veramente efficace» ha continuato. «Questo ci deve in qualche modo preparare per le prossime epidemie, perché concettualmente noi avevamo già la nozione dell’efficacia di questo antivirale e abbiamo dovuto aspettare la pubblicazione qualche mese fa di un trial clinico per averne la conferma».

Si tratta di uno studio pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine, in doppio cieco, randomizzato, controllato con placebo, multicentrico, con endpoint di efficacia sull’ospedalizzazione, sulla mortalità per tutte le cause e sugli eventi avversi.

I risultati su 562 pazienti hanno mostrato con remdesivir una riduzione dell’87% nel rischio di ospedalizzazione, un dato ancora più eclatante se si considera che nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di pazienti non vaccinati. Anche il rischio di visite effettuate sui pazienti si sono ridotte dell’81% nei soggetti trattati con per 3 giorni l’antivirale rispetto al placebo. Gli eventi avversi sono stati trascurabili, in alcuni casi addirittura maggiori nella popolazione trattata con il placebo.

Lo Spallanzani ha rapidamente adattato l’ambulatorio per le terapie precoci, che sino ad allora somministrava esclusivamente anticorpi monoclonali, all’utilizzo di remdesivir, qualche volta iniziato al pronto soccorso e qualche volta invece direttamente in ambulatorio nei due giorni successivi. Il paziente deve essere immediatamente identificato e immediatamente trattato.

Alcune regioni, il Lazio in particolare, hanno gestito bene le terapie veloci sfruttando l’integrazione tra ospedale e territorio dove l’infettivologo diventa il perno centrale della gestione dei casi in tutti i pronto soccorso e, anche dove l’infettivologo non è presente, può fare consulenza da remoto. Il Lazio può contare su tre hub principali di malattie infettive operativi per 24 ore al giorno e su una serie di pronto soccorso, che sono 49 più quello pediatrico del Bambino Gesù, in cui gli infettivologi forniscono consulenze 7 giorni su 7.

«Solo nel 2020 abbiamo fatto 10mila consulenze per via telematica, accedendo al sistema informativo del pronto soccorso dell’ospedale che richiedeva la consulenza e facendo sì che i medici di pronto soccorso avessero le credenziali per prescrivere direttamente remdesivir» ha fatto presente Nicastri. «Nella nostra esperienza abbiamo subito iniziato a usare il farmaco e nella popolazione anziana abbiamo un’elevata esposizione a remdesivir, quindi proprio nella la popolazione che dovrebbe essere più oggetto delle nostre attenzioni.  L’analisi dei tamponi effettuati a sette giorni dalla fine della terapia ha mostrato che praticamente i pazienti guariti dall’infezione erano di fatto stati trattati con l’antivirale».

«Concludo facendo per primo fare ammissione di colpa perché probabilmente avremmo dovuto fare prima questo lavoro, dato che di fatto avevamo tutte le basi eziologiche, patogenetiche e virologiche per iniziare remdesivir precocemente nei pazienti gravi o ancora prima, quando non necessitavano di ospedalizzazione» ha riassunto Nicastri.