Baby gang: il pedagogista Mantegazza analizza il fenomeno


Allarme baby gang, ma il pedagogista Raffaele Mantegazza avverte: “Distinguere tra criminalità e vandalismo”

baby gang

A Torino, nel quartiere Borgo Vittoria, venerdì pomeriggio una coppia di cinquantenni è stata aggredita per aver sgridato un gruppo di ragazzini perché uno di loro stava facendo pipì in strada. A Cagliari un ragazzo di 16 anni è stato picchiato in pieno centro mentre passeggiava con alcuni amici. Denunciati per lesioni gravi un 21enne e quattro minorenni. E poi ancora Perugia, Parma, Cantù. Nelle ultime settimane è tornato protagonista delle cronache il bollettino di aggressioni e violenze firmato da ragazzi e ragazze spesso minorenni. Gli episodi sono sempre più frequenti tanto che si torna a sentir parlare delle cosiddette ‘baby gang’.

“È importante fare dei distinguo, non tutti gli atti di vandalismo o gli episodi di teppismo attuati da gruppi di giovani sono ascrivibili a questo fenomeno”, sottolinea alla Dire (www.dire.it) Raffaele Mantegazza, professore di Pedagogia presso l’università degli studi di Milano ‘Bicocca’ e autore per il magazine pediatrico ‘Uppa’ (www.uppa.it). “Baby gang dovrebbe voler dire un gruppo organizzato che ha come scopo delinquere o che comunque regolarmente commette degli atti contro la legge e alle cui spalle c’è sicuramente la criminalità organizzata- continua Mantegazza- diverso è quando si parla di ragazzi che, magari in maniera casuale, commettono un atto di teppismo. Nel primo caso siamo di fronte alla criminalità organizzata che si serve dei ragazzi per il controllo del territorio, nel secondo possiamo essere di fronte ad atti di teppismo non accettabili ma che rientrano in dinamiche abbastanza tipiche dell’età adolescenziale. La distinzione è importante perché un conto è affiliarsi a un gruppo che usa la violenza per vocazione, ed è stato strutturato dagli adulti, e ben altra cosa è il vandalismo adolescenziale. Il rischio è che la patologizzazione sistematica di qualunque gesto compiuto dagli adolescenti porti a degli interventi non adeguati o insufficienti, per intervenire in modo adeguato è importante capire cosa si ha di fronte”.

Per Mantegazza è “probabile che oggi, dopo la pandemia e i lockdown, si sia di fronte a una recrudescenza della violenza perché da parte dei ragazzi c’è un grande bisogno di esprimere fisicamente la propria identità e la propria personalità- dice- a volte questi aspetti vengono recuperati attraverso la musica, lo sport, altre attraverso l’atto criminale che è un modo per essere protagonisti, seppur in negativo”. Ma Mantegazza avverte: “la violenza degli adolescenti è lo specchio della violenza adulta. È esagerato parlare di allarme sociale se lo si concentra solo sul fenomeno delle baby gang, l’allarme sociale c’è ma rispetto a una violenza generale che ormai è endemica, percepita come normale modalità di risolvere i conflitti, basti pensare ai femminicidi che vengono compiuti ogni giorno. I ragazzi rispecchiano un mondo in cui la violenza è all’ordine del giorno e se facciamo il passaggio contrario, ossia definire l’allarme sociale a partire dai ragazzi, facciamo un’operazione ipocrita che assolve noi adulti ma non rispecchia la realtà. È importante capire che i ragazzi ci restituiscono un’immagine di noi, magari esasperata ma è così”. E allora “bisogna mostrare la forza dell’esempio positivo- evidenzia Mantegazza- avere autocritica e recuperare l’idea del modello adulto che non mette la prevaricazione al centro dei comportamenti. E poi bisogna portare la vita nei luoghi dove i ragazzi si riuniscono, bisogna creare spazi dove possano organizzare eventi regolamentati, ormai le periferie sono diventate praterie dove l’adulto non entra e i ragazzi si autogestiscono, a volte in maniera saggia e altre no”.

In conclusione per l’esperto “il territorio va riconquistato da un progetto pedagogico, bisogna portare possibilità di divertimento sano. Per esempio in Brianza, dove vivo- dice- dopo le scuole c’è il nulla, neanche la luce sul campo di basket ed è chiaro che questo poi può portare a comportamenti trasgressivi. Serve il coinvolgimento attivo dei ragazzi e la loro responsabilizzazione”.

SIANI: “NECESSARIA LA PREVENZIONE, ISTITUIRE FIGURA DEL ‘FACILITATORE’

Un fenomeno in pericolosa crescita”. Così definiva le baby gang la Commissione parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza in un’indagine conoscitiva sull’argomento pubblicata a dicembre 2020. Oggi, a distanza di un anno e mezzo, le cronache testimoniano come quell’indagine sia più che mai attuale. “È un fenomeno diffuso su tutto il territorio nazionale- sottolinea Paolo Siani, pediatra e vice presidente della Commissione- con caratteristiche diverse a seconda dei luoghi, più violento ad esempio nelle regioni del sud Italia”.

Si tratta spesso di “piccole bande di adolescenti che vivono in contesti violenti, non necessariamente di malavita organizzata– dice Siani- ma comunque realtà sociali marginali e il modo di esprimersi che conoscono questi ragazzi è appunto quello della violenza”. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso atti vandalici, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa. Mentre in tante città come Bologna, Napoli, Milano o Roma, la criminalità di gruppo che lega i giovanissimi è motivo di allarme. Ma come intervenire? Secondo la Commissione Infanzia e Adolescenza “l’intervento repressivo non risolve, da solo, le origini del problema, per cui è importante- si legge nell’indagine conoscitiva sul fenomeno- un approccio volto a porre in essere misure di prevenzione”.

E per Siani la prevenzione si traduce nell’istituzione della figura del ‘facilitatore’. “Intervenire preventivamente vuol dire poter cambiare la storia di un bambino- sottolinea il vice presidente della Commissione- per questo ho proposto più volte di fare una cosa che fanno molti paesi europei: una visita domiciliare alla nascita di ogni bambino. Il ‘facilitatore’ dovrebbe essere un operatore di prossimità, anche una mamma esperta per esempio, che sia adeguatamente formato ma che non abbia competenze specifiche in campo sanitario o sociale, e che a pochi giorni dalla nascita del bambino vada a far visita alla famiglia, gratuitamente”.

“Entrare in una casa subito dopo che è nato un bambino- continua Siani- vuol dire potersi rendere conto delle eventuali difficoltà di quella famiglia, dell’ambiente, dello stato in cui si trova la mamma dopo il parto e poter quindi valutare le necessità. Questo ‘facilitatore’ dovrebbe poi poter tornare nelle Casa di comunità, ad esempio, o nei consultori e, confrontandosi con gli altri operatori, stilare un programma specifico per ogni famiglia. Le visite poi sarebbero continuative nel tempo, man mano che il bambino cresce, in modo da potersi rendere conto delle necessità che nascono. Solo così- dice Siani- intercettando i disagi prima che si manifestino si può aiutare davvero il bambino e la famiglia ed evitare appunto che si finisca in situazioni come quelle delle baby gang”.

L’importanza di questo operatore di prossimità “è anche quella di mettere in connessione tutto quello che c’è sul territorio in merito all’infanzia, creare una rete che possa intercettare i problemi precocemente ed evitare che sia troppo tardi”. Per Siani “è un’idea fattibile e a basso costo che darebbe certamente dei risultati positivi. E’ un’idea che mi è venuta lavorando come pediatra- spiega- perché spesso capita che i pediatri stessi, vedendo i bambini fin dalla nascita, possano rendersi conto subito di alcune situazioni ma il problema è che non sanno a chi dirlo, a chi rivolgersi. Il facilitatore allora è una figura che dovrebbe fare da raccordo, creare una rete di protezione e stimolo intorno alla famiglia”.