Osteoporosi: nuovi studi confermano l’efficacia di romosozumab


Dal congresso mondiale sull’osteoporosi, l’osteoartrosi e le malattie muscolo-scheletriche arrivano nuove conferme per romosozumab

Osteoporosi: nuovi dati su romosozumab da uno studio presentato nel corso del congresso annuale dell'American Society for Bone and Mineral Research (ASBMR)

Due analisi post-hoc di studi registrativi, presentate durante i lavori del congresso mondiale sull’osteoporosi, l’osteoartrosi e le malattie muscolo-scheletriche (WCO 2022), hanno ribadito l’efficacia e la sicurezza di romosozumab, anticorpo monoclonale anti-sclerostina, nel trattamento dell’osteoporosi (OP) – sia in termini di miglioramenti ottenuti con questo farmaco a livello di densità minerale ossea e riduzione del rischio di fratture, che in termini di safety.

Ecco, di seguito, una breve disamina delle due analisi post-hoc presentate al Congresso.

Primo studio: effetto di romosozumab sulla densità minerale ossea e sulla riduzione del rischio di fratture
La soglia per l’effetto surrogato (STE) della densità minerale ossea (DMO) è un valore introdotto nell’ambito di un progetto congiunto FNIH-ASBMR-SABRE per predire una riduzione significativa del rischio di frattura a livello di studio clinico. Le STE sono calcolate utilizzando le differenze di variazione percentuale della DMO a 24 mesi tra i gruppi di trattamento attivo e il placebo.

In pratica, una misura più clinicamente rilevante è quella che prevede la verifica di un miglioramento della DMO dei pazienti ottenuta con il trattamento rispetto ai valori iniziali.

Questa analisi post-hoc dei dati dello studio FRAME e ARCH ha voluto valutare la percentuale di pazienti soddisfacenti il raggiungimento delle soglie STE con romosozumab o alendronato a 12 e a 24 mesi rispetto ai corrispondenti valori densitometrici di partenza.

A tal scopo, i ricercatori hanno analizzato i dati delle donne affette da OP post-menopausale randomizzate a trattamento mensile con romosozumab 210 mg o a trattamento di confronto (placebo nello studio FRAME, alendronato nello studio ARCH) per 12 mesi.

Dopo 12 mesi, tutti i pazienti dei due trial in questione erano stati sottoposti a trattamento con alendronato nello studio ARCH o a denosumab nello studio FRAME.

I risultati dell’analisi hanno mostrato che, dopo un anno di trattamento con romosozumab, la maggior parte dei pazienti trattati (80%) aveva raggiunto le STE associate ad una riduzione del rischio di frattura.
Non solo: sia a 12 che a 24 mesi, proporzioni più ampie di pazienti hanno soddisfatto il raggiungimento delle STE con romosozumab rispetto ad alendronato per tutte le tipologie di fratture considerate.

Secondo studio: efficacia e safety di romosozumab in pazienti già fratturati  
Questa analisi post-hoc ha ampliato le osservazioni già documentate dalla stessa equipe di ricercatori di una minor frequenza di fratture cliniche durante con romosozumab vs. placebo nello studio FRAME (romosozumab: 58/3589; PBO: 92/3591) e con romosozumab vs alendronato nello studio ARCH (romosozumab: 79/2046; ALN 110/2047), focalizzandosi sull’impiego di romosozumab nei pazienti con fratture nel corso degli studi.

Nello specifico, in questa analisi condotta nei pazienti che avevano sperimentato fratture cliniche durante i trial, è stata riportata la relazione esistente con il timing di somministrazione di romosozumab post-frattura, come pure i dati di safety (TEAE= eventi avversi emersi a seguito del trattamento, AE scheletrici specifici).

Da questa analisi è emerso che la prima frattura clinica osservata più frequentemente era quella al radio (circa 30% di casi) sia nello studio FRAME (romosozumab: 22/58; PBO: 27/92) che nello studio ARCH (romosozumab: 28/79; ALN: 33/110).

Queste fratture, inoltre, si sono manifestate senza alcun pattern speciifico relativo al timing di somministrazione di romosozumab.

Dopo una frattura, la somministrazione successiva dell’anticorpo anti-sclerostina è avvenuta dopo una mediana di 15 giorni (media: 21 [range: 0–159]) nello studio FRAME e di 14 giorni (media: 21 [range: 0–197]) nello studio ARCH.

Da ultimo, nessun paziente è andato incontro a eventi avversi o a complicanze legate alla guarigione delle fratture.

In conclusione, i risultati di questa analisi post-hoc hanno documentato un numero più ridotto di fratture cliniche nel corso del primo anno di trattamento con romosozumab rispetto ai gruppi di confronto degli studi FRAME e ARCH. Inoltre, la somministrazione ininterrotta dell’anticorpo anti-sclerostina non è risultata apparentemente associata a ritardi nella guarigione delle fratture o contribuire all’osservazione di altri AE scheletrici nei pazienti con frattura clinica pregressa.

Informazioni su romosozumab
Romosozumab è definito appartenente alla categoria dei farmaci “bone building”, caratterizzandosi per un meccanismo d’azione peculiare.

Il farmaco, infatti, condivide con teriparatide la neosintesi di osso, ma con un meccanismo d’azione nettamente diverso. Teriparatide determina un aumento dell’attività osteoblastica ma, contemporaneamente, aumenta il turnover, per cui determina nel medio termine un aumento dell’attività osteoclastica che, alla lunga, è causa del plateau del processo di neoformazione ossea.

Rispetto ai farmaci antiriassorbitivi, invece, romosozumab condivide l’attività osteoclastica (per quanto molto blanda), differenziandosi però per il forte stimolo dell’attività osteoblastica, per cui l’effetto netto è la produzione di osso nuovo di grande qualità.  nel trattamento dell’OP.

L’Aifa ne ha autorizzato il mese scorso l’immissione in commercio per il trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura.