Tumore ovarico: nuovi dati sulla chemioterapia intraperitoneale


Tumore dell’ovaio: secondo nuovi studi la chemioterapia intraperitoneale ritarda la progressione di malattia, ma non allunga la vita

La sindrome dell’ovaio policistico

La chemioterapia di prima linea con carboplatino somministrato per via intraperitoneale (ip) più paclitaxel migliora la sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto alla tradizionale chemioterapia somministrata per via endovenosa (ev) nelle pazienti con carcinoma ovarico epiteliale, delle tube di Falloppio o peritoneale primario, ma non offre un beneficio sul piano della sopravvivenza globale (OS). È quanto emerge dai risultati dello studio di fase 2/3 iPocc (intraPeritoneal therapy for ovarian cancer with carboplatin), da poco presentati all’Annual Meeting on Women’s Cancer della Society of Gynecologic Oncology (SGO).

Nella popolazione Intention-to-Treat (ITT), infatti, la PFS mediana è risultata di 23,5 mesi nel braccio trattato con la chemioterapia ip (328 pazienti), a fronte di 20,7 mesi con la chemioterapia ev (327 pazienti), con una riduzione del 17% del rischio di progressione della malattia o decesso (HR 0,83; IC al 95% 0,69-0,99; P = 0,041).

Nella popolazione ITT modificata, la PFS mediana è risultata, invece, di 22,9 mesi nel braccio trattato con la chemioterapia ip (299 pazienti), contro 20,0 mesi nei bracco assegnato alla chemioterapia ip (303 pazienti), con una riduzione del 23% del rischio di progressione della malattia o decesso (HR 0,78; IC al 95% 0,65-0,94; P = 0,009).

Tuttavia, nella popolazione ITT l’OS mediana è risultata di 64,9 mesi con la chemioterapia ip e 67,0 mesi con la chemioterapia ev (HR 0,95; IC al 95% 0,77-1,17; P = 0,041), mentre nella popolazione ITT modificata l’OS mediana è risultata rispettivamente di 64,9 mesi e 64,0 mesi (HR 0,91; IC al 95%, 0,73-1,13; P = 0,403). In entrambe le popolazioni, dunque, la chemioterapia ip non ha offerto nessun beneficio rispetto a quella convenzionale nel prolungare la vita delle pazienti,

Ruolo della chemio intraperitoneale da chiarire
«La chemioterapia ip senza bevacizumab ha migliorato la PFS rispetto a quella ev in pazienti con carcinoma ovarico, delle tube di Falloppio o peritoneale, indipendentemente dalle dimensioni del tumore residuo dopo l’intervento chirurgico iniziale», ha detto Keiichi Fujiwara, della Saitama Medical University di Hidaka-Shi, in Giappone.

Sebbene la chemioterapia ip abbia mostrato un beneficio di sopravvivenza rispetto al trattamento ev nelle pazienti con carcinoma ovarico avanzato che hanno ottenuto una citoriduzione ottimale con la chirurgia (senza, cioè, residui di malattia dopo l’intervento), Fujiwara ha osservato che finora la chemioterapia ip non è stata accettata ampiamente come standard di cura di prima linea, principalmente per la complessità dei disegni degli studi in cui la si è valutata e delle tossicità. Inoltre, non era mai stata confrontata in precedenza con la doppietta carboplatino/paclitaxel ev.

Prima dello studio iPocc, ha proseguito l’autore, non si era mai valutata in uno studio di fase 3 la somministrazione ip del carboplatino, il cui ruolo andrebbe dunque chiarito, tanto più che si ormai entrati definitivamente nell’era degli inibitori di PARP. In uno studio di farmacocinetica, i dati hanno suggerito che la chemioterapia ip potrebbe essere efficace nelle pazienti con malattia residua di grandi dimensioni dopo la chirurgia, grazie all’assorbimento della terapia a base di platino attraverso i capillari peritoneali che raggiungono il nucleo interno dei tumori voluminosi attraverso la circolazione sistemica.

Lo studio iPocc
Nello studio iPocc (NCT01506856), un trial randomizzato, in aperto, i ricercatori hanno cercato di valutare l’efficacia del carboplatino ip rispetto al carboplatino ev, in entrambi i casi in combinazione con paclitaxel ev, in 655 pazienti con carcinoma ovarico epiteliale, delle tube di Falloppio o peritoneale primario in stadio dal II al IV, comprese, quindi, pazienti con tumori voluminosi.

Le partecipanti dopo l’intervento chirurgico iniziale potevano avere una malattia residua di dimensioni minime o di grandi dimensioni. Tuttavia, non potevano avere tumori maligni borderline, avere già effettuato una precedente chemioterapia o la radioterapia, avere tumori maligni concomitanti attivi o aver avuto neoplasie maligne nei 5 anni precedenti, avere complicazioni gravi, avere un versamento pleurico richiedente un drenaggio continuo o avere malattie infettive attive o metastasi cerebrali sintomatiche.

Le partecipanti sono state assegnate al trattamento con paclitaxel 80 mg/m2 ev nei giorni 1, 8 e 15 più carboplatino ev oppure ip AUC6 ogni 21 giorni per 6-8 cicli, ma non sono state trattate con bevacizumab né sottoposte ad alcuna terapia di mantenimento.

L’endpoint primario era la PFS e gli endpoint secondari includevano l’OS, la tossicità e la qualità della vita.

Le caratteristiche delle pazienti erano simili nei due bracci. L’età mediana era di 59 anni (range: 30-84), la maggior parte delle donne aveva un performance status ECOG pari a 0 (75,1%) e il 91,6% era di razza asiatico-giapponese. La sede principale della malattia era l’ovaio nel 75,7% dei casi, la tuba di Falloppio nel 5,1%, il peritoneo nel 14,7% e altro nel 4,6%. Complessivamente, il 68,4% delle partecipanti aveva una malattia in stadio III della classificazione FIGO e il 55% aveva una malattia residua dopo la chirurgia di dimensioni superiori a 2 cm. Il 64,1% dei pazienti aveva un’istologia sierosa, l’11,3% a cellule chiare, il 9,3% endometrioide, il 2,3% mucinosa e il 13,0% di altro tipo.

Beneficio di PFS nei sottogruppi, ma nessuna differenza nei tassi di risposta
Il follow-up mediano è stato di 55,8 mesi.

Fujiwara ha osservato che il beneficio di PFS associato alla chemioterapia ip è stato osservato anche nei sottogruppi predefiniti, compreso quello delle pazienti con malattia residua di dimensioni maggiori di 2 cm.

I due approcci non hanno mostrato differenze significative, oltre che sull’OS, anche riguardo ai tassi di risposta obiettiva (ORR). Infatti, l’ORR riscontrato nel braccio trattato con la chemioterapia ip è risultato del 70,2% (IC al 95% 62,7%-76,9%), mentre quello osservato nel braccio assegnato alla chemioterapia convenzionale del 72,6% (IC al 95% 65,2%-79,2%) (odds ratio, OR, 0,89; IC al 95% 0,55-1,42; P = 0,0633).

Per quanto riguarda la sicurezza, l’incidenza degli eventi avversi è risultata simile nei due bracci e gli eventi avversi di grado 3 o superiore hanno mostrato un’incidenza del 93,2% nel braccio trattato con la chemioterapia ip e 96,0% nel braccio sottoposto alla chemioterapia ev (OR 0,58; IC al 95% 0,28-1,21).

Tuttavia, gli autori hanno registrato un’incidenza più bassa di infezioni associate al catetere nel braccio trattato con la chemio ev rispetto al braccio trattato con la chemio ip (0,7% contro 10,1%), così come di infezioni addominali (1,7% contro 2,4%). Nel complesso, il dolore addominale di qualsiasi grado si è presentato rispettivamente nel 34,7% e nel 51,7% delle pazienti.

Necessari ulteriori studi
È interessante confrontare i dati dello studio iPocc con quelli dello studio di fase 3 GOG-0252, anch’essi presentati al congresso della SGO 2022. Nello studio GOG-0252, la chemioterapia ip più bevacizumab non ha mostrato differenze rispetto alla chemioterapia ev più bevacizumab né per quanto riguarda la PFS né per quanto riguarda l’OS in pazienti con carcinoma ovarico avanzato senza malattia macroscopica, indipendentemente dal gruppo di trattamento o dal sottogruppo di pazienti.

Fujiwara ha spiegato che nello studio iPocc non è stato utilizzato bevacizumab, il che potrebbe essere contestato nel momento in cui si usa il carboplatino per la chemioterapia ip, e ha osservato che un altro elemento di differenza fra i due trial è rappresentato dall’inclusione di pazienti tumori residui più grandi nello studio iPocc.

Secondo l’autore, i prossimi passi della ricerca dovrebbero includere l’individuazione di biomarcatori per selezionare le pazienti da assegnare alla chemioterapia ip, cosa che si sta facendo nello studio TRiPocc, attualmente in corso, che è un’analisi molecolare integrata di donne asiatiche con cancro ovarico dello studio iPocc.

«Servono ulteriori studi per chiarire il vero ruolo della chemioterapia a base di carboplatino ip. Potrebbe essere un’arma potente per i Paesi a reddito medio-basso, nei quali il mantenimento con bevacizumab o gli inibitori di PARP non sono disponibili o accessibili economicamente», ha concluso Fujiwara.

Bibliografia
K. Fujiwara. A randomized phase 3 trial of intraperitoneal versus intravenous carboplatin with dose-dense weekly paclitaxel in patients with ovarian, fallopian tube, or primary peritoneal carcinoma (a GOTIC-001/JGOG-3019/GCIG, iPoccTrial). 2022 SGO Annual Meeting on Womens’ Cancer; abstract 241.