Colangiocarcinoma: una neoplasia “silenziosa”


Il colangiocarcinoma è un tumore “silenzioso”, spesso caratterizzato da sintomi generici come perdita di peso, nausea, malessere che possono essere facilmente sottovalutati

Farmaci per colangiocarcinoma, medicina

Il colangiocarcinoma è un tumore “silenzioso”, spesso caratterizzato da sintomi generici (ad esempio dolore addominale, perdita di peso, nausea, malessere) che possono essere facilmente sottovalutati o confusi con quelli di altre patologie. Per questo il 70% dei pazienti presenta alla diagnosi una malattia già in fase avanzata, con poche possibilità di trattamento, anche se oggi si stanno affacciando armi innovative in grado di migliorare la sopravvivenza. Si tratta di una patologia in costante crescita, i nuovi casi in Italia sono aumentati del 14% in 5 anni (da 4700 nel 2015 a 5400 nel 2020), ma ancora poco conosciuta. Per sensibilizzare tutti i cittadini, si è celebrato il World Cholangiocarcinoma Day, la Giornata mondiale per informare su sintomi, fattori di rischio e opportunità di cura del colangiocarcinoma, con l’obiettivo di darne la più ampia visibilità.

“Il colangiocarcinoma è un tipo di tumore primitivo del fegato che ha origine dai colangiociti, le cellule che rivestono i dotti biliari, deputati al trasporto della bile dal fegato all’intestino – afferma Filippo de Braud, Professore Ordinario di Oncologia Medica all’Università degli Studi di Milano e Direttore del Dipartimento e della Divisione di Oncologia Medica della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale Tumori di Milano -. Si distingue in base alla sede d’insorgenza in intraepatico, se si sviluppa all’interno del fegato, ed extraepatico, se nasce dalle vie biliari extraepatiche. I calcoli biliari e la colangite sclerosante primitiva, una grave malattia infiammatoria cronica del fegato, rappresentano potenti fattori di rischio per le forme intraepatiche. Inoltre, l’obesità, il fumo di sigaretta, le malattie infiammatorie croniche dell’intestino, il consumo eccessivo di alcol e l’esposizione a sostanze chimiche cancerogene, a tossine e a vari agenti ambientali (diossine, nitrosamine, radon e amianto) aumentano il rischio di sviluppare il tumore”. “Ad oggi, non vi sono metodi per la diagnosi precoce, perché la malattia di solito è asintomatica per lungo tempo – spiega Nicola Silvestris, Membro del Direttivo Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) e Professore Associato di Oncologia Medica all’IRCCS Istituto Tumori ‘Giovanni Paolo II’ di Bari -. Non esistono, quindi, test di screening o esami diagnostici di routine in grado di identificarla in fase iniziale, quando è ancora possibile la rimozione chirurgica. Sintomi più definiti compaiono se la neoplasia è avanzata. Nel colangiocarcinoma intraepatico, si possono avvertire disturbi non specifici, come dolore addominale, perdita di peso, nausea, malessere: per questo, la diagnosi è accidentale nel 20-25% dei casi”. Nella forma extraepatica, il 90% dei pazienti si presenta dallo specialista con ittero (colorito giallo della cute e delle sclere, dovuto all’accumulo di bile nel sangue) con urine scure, feci biancastre e prurito (per l’aumento dei livelli di sali biliari nel sangue) senza dolore, e solo nel 10% dei casi si osservano sintomi riferibili a colangite, come dolore e febbre.

“Lo scopo della Giornata Mondiale è fare luce su una patologia di cui si parla ancora troppo poco – spiega Giovanni Brandi, Direttore della Scuola di Specializzazione di Oncologia Medica all’Università di Bologna, fondatore dell’Associazione Pazienti Italiani Colangiocarcinoma (APiC) e del Gruppo Italiano Colangiocarcinoma (GICO) -. L’Associazione Pazienti Colangiocarcinoma è nata nel 2019 per aiutare i pazienti ad accedere a informazioni corrette e per promuovere la ricerca su questo tumore poco conosciuto. Inoltre, collabora con un gruppo di specialisti in uno sforzo multidisciplinare di approccio globale a questa neoplasia. Il percorso che porta alla diagnosi è molto complesso per i colangiocarcinomi extraepatici, ma è spesso tardivo anche per i colangiocarcinomi intraepatici, dove il percorso diagnostico sarebbe più facile se si cogliessero precocemente i segni/sintomi di sospetto. Per questo vanno sensibilizzati anche i medici di famiglia, perché siano in grado di cogliere i primi sintomi sospetti. Talvolta basta una semplice alterazione di laboratorio, come incremento della fosfatasi alcalina, ad indurre sospetto da approfondire. Inoltre, è fondamentale che i pazienti siano indirizzati precocemente a centri di riferimento dove è possibile una presa in carico completa da parte di un team multidisciplinare dedicato, costituito dall’oncologo medico, dal chirurgo epatobiliare, dal radiologo diagnostico ed intervenzionista, epatologo, endoscopista e radioterapista, in grado di definire al meglio il percorso diagnostico e terapeutico”. “In oltre la metà dei casi di colangiocarcinoma che si verificano nei Paesi occidentali e, quindi, anche in Italia, non è possibile riscontrare alcun fattore di rischio conosciuto – continua il prof. Brandi -. A fronte del notevole aumento delle diagnosi della forma intraepatica, studi clinici si sono focalizzati sui fattori ambientali di larga diffusione, identificando nella pregressa esposizione all’amianto un potenziale responsabile dell’impennata di casi di colangiocarcinomi intraepatici, spiegabile solamente con la discesa in campo di un fattore di rischio di natura ambientale. Questo minerale è un fattore di rischio ben definito per neoplasie come il mesotelioma e tumori del polmone, dell’ovaio e della laringe. Ad oggi si stanno accumulando dati di ordine epidemiologico, genomico, patologico che indicano il ruolo dell’amianto come fattore aggiuntivo di rischio di sviluppo di colangiocarcinomi intraepatici. Studi caso controllo retrospettivi e prospettici (questi ultimi in corso di pubblicazione nel 2022) suggeriscono che il rischio di sviluppo di colangiocarcinomi intraepatici aumenti di almeno 5 volte negli esposti. Tutto ciò ha portato già a sentenze definitive di Tribunali italiani che hanno accettato la correlazione fra amianto e sviluppo di colangiocarcinomi intraepatici”.

In Italia vivono circa 12.700 persone dopo la diagnosi di colangiocarcinoma. “Soltanto il 25% dei pazienti è candidato alla chirurgia, ma l’operazione, se effettuata nella malattia in stadio iniziale, può avere esito risolutivo – afferma il prof. Silvestris -. In molti casi, dopo l’intervento è indicata una chemioterapia precauzionale. Ciononostante, anche dopo una resezione chirurgica radicale e potenzialmente curativa, la recidiva si manifesta nel 60% dei casi entro due anni. Nei pazienti che non possono essere operati o nei quali la malattia si è ripresentata, il trattamento di prima scelta è rappresentato dalla chemioterapia, che può contribuire a controllare l’evoluzione del tumore, anche se con un’efficacia limitata. Infatti, la maggior parte dei pazienti a un certo punto non risponde più alla chemioterapia di prima linea”. La sopravvivenza a 5 anni è a pari al 17% negli uomini e al 15% nelle donne.

“Ecco perché servono nuove armi – sottolinea il prof. de Braud -. In questi anni, è stata dedicata molta attenzione alla caratterizzazione molecolare della malattia attraverso tecniche di sequenziamento genico, che hanno permesso di identificare alterazioni, bersaglio di farmaci specifici. E sono numerosi gli studi volti a comprendere il ruolo delle terapie mirate nel colangiocarcinoma avanzato o metastatico, in particolare nei tumori a genesi intraepatica. Nel complesso, circa la metà dei colangiocarcinomi presenta una o più mutazioni potenzialmente trattabili con farmaci a bersaglio molecolare”. In particolare, le traslocazioni di FGFR2 (recettore 2 del fattore di crescita dei fibroblasti) sono presenti in circa il 7% dei colangiocarcinomi intraepatici in Europa.

“Nello studio clinico multicentrico di fase II FIGHT-202, pemigatinib, una nuova terapia mirata, ha dimostrato, nei pazienti che presentano fusioni o riarrangiamenti di FGFR2, un tasso di risposta globale del 37% e una durata mediana della risposta di 8 mesi – continua il prof. de Braud -. Pemigatinib ha un’attività più elevata rispetto a quella di altre molecole utilizzate in seconda o successive linee di trattamento. I risultati sono importanti e, in una piccola percentuale di pazienti, si sono addirittura osservate risposte complete, quindi la malattia è scomparsa”. Sulla base dei risultati dello studio FIGHT-202, lo scorso anno la Commissione europea ha approvato pemigatinib nel colangiocarcinoma localmente avanzato o metastatico con fusioni o riarrangiamenti del FGFR2 e con progressione di malattia dopo almeno una precedente linea di terapia sistemica.

“L’approvazione di pemigatinib da parte della Commissione europea – conclude Onofrio Mastandrea, Executive Director, General Manager, Incyte Biosciences Italia – è un risultato importante per tutta la comunità scientifica, ma soprattutto per i pazienti, considerato l’importante bisogno terapeutico insoddisfatto legato al colangiocarcinoma. Storicamente i pazienti con colangiocarcinoma hanno avuto limitate opzioni di trattamento. Se a questo si aggiunge che questi pazienti spesso non sono eligibili per la chirurgia a causa di una diagnosi tardiva, l’approvazione di pemigatinib da parte della Commissione europea rappresenta un’opzione terapeutica per i pazienti candidabili al trattamento. Infatti, pemigatinib è la prima target therapy approvata in Europa per questa indicazione. Il nostro obiettivo è migliorare le aspettative di sopravvivenza e la qualità di vita di persone colpite da tumori molto difficili da trattare, come il colangiocarcinoma; per questo collaboriamo con le società scientifiche e con le associazioni dei pazienti”.