Piano nazionale AIDS: alcune regioni sono in ritardo


Piano nazionale AIDS applicato in maniera difforme sul territorio nazionale: a livello regionale la lotta all’HIV procede a macchia di leopardo

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A livello regionale la lotta all’HIV/AIDS procede a macchia di leopardo. A due anni dall’entrata in vigore del Piano nazionale di interventi contro HIV e AIDS (PNAIDS) 2017-2019, nel 2019, solo la metà delle Regioni lo aveva recepito con Delibere regionali, solo nel 38% dei casi era stata nominata la Commissione regionale AIDS e si incontrava, solo il 37% delle Regioni aveva realizzato campagne di comunicazione per le popolazioni target e solo il 28% delle Regioni aveva definito un PDTA dell’HIV. Una partenza lenta che, nonostante una ripresa nel 2019, in particolare sul fronte della nomina delle Commissioni regionali, fa trasparire ancora oggi diverse velocità e priorità regionali. È quanto emerge dai risultati del progetto di ricerca APRI – Aids Plan Regional Implementation svolto da SDA Bocconi School of Management con il contributo di Gilead Sciences presentato oggi nel corso dell’evento L’HIV 40 anni dopo. Rilanciare la lotta alla pandemia dimenticata.

Le lentezze a livello organizzativo e di implementazione del PNAIDS contribuiscono ad aggravare uno scenario di per sé critico, in cui la pandemia da HIV sembra essere stata dimenticata, all’ombra dell’epidemia da Covid-19 che ha causato un calo di oltre il 50% dei test HIV effettuati e ritardi nell’accesso ai servizi sanitari per visite e consulti. Mancanza di informazione e sensibilizzazione alimentano il diffondersi dell’infezione soprattutto tra i più giovani esposti a una minor comunicazione sull’HIV a differenza del passato: l’incidenza più elevata di nuove diagnosi si riscontra infatti nella fascia di età 25-29 anni. In Italia, si stima siano circa 120.000 le persone affette da HIV: di queste circa 100.000 sono state diagnosticate (83%) ma le rimanenti 20.000 (17%) sono ancora “sommerso” – “in attesa” di fare il test – con il rischio di diagnosi tardiva e aggravamento dell’infezione da un lato e la sua continua diffusione dall’altro. Grazie ai progressi terapeutici, chi vive con l’infezione può controllarne l’andamento ed i sintomi, con un’aspettativa e una qualità della vita che possono diventare analoghe ad un soggetto non infetto. La scarsa conoscenza dell’HIV e la presenza di atteggiamenti discriminatori influenzano però negativamente la qualità della vita dei pazienti e il percorso terapeutico. Ad esempio, il 32% dei pazienti è o è stato vittima di episodi discriminatori.

“La congiuntura storica che ci vede affrontare le conseguenze dell’emergenza pandemica da Covid-19 non può più rappresentare un ostacolo alla gestione e al trattamento delle altre patologie, specialmente quelle croniche come l’HIV su cui pesano maggiormente i ritardi di presa in carico e follow-up”. Così commenta Claudio M. Mastroianni, Presidente Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e Professore Ordinario di Malattie Infettive presso Sapienza Università Roma. “L’implementazione del PNAIDS sul territorio è in questo senso non solo auspicabile, ma necessaria – continua Mastroianni – per far fronte in maniera adeguata alle sfide dell’HIV che – proprio per la sua natura ormai cronica – necessita di un modello rafforzato di presa in carico, dalla diagnosi, all’accesso alle cure fino alla gestione del follow up, all’interno della filiera assistenziale, integrando i centri specialisti con la rete territoriale”.

Proprio nell’ottica di contribuire all’applicazione di alcune azioni specifiche del PNAIDS e di rivedere i modelli di presa in carico dell’HIV è nato il progetto di ricerca APRI 2.0. Partendo dalle criticità emerse dalla prima fase dello Studio nel promuovere politiche e strumenti di contrasto alla diffusione dell’HIV a livello regionale, la seconda fase ha inteso identificare delle strategie d’intervento più adeguate attraverso la realizzazione di alcune case studies.

“Dalla fotografia dello stato dell’arte nell’implementazione e attuazione del PNAIDS sul territorio italiano realizzata in una prima fase progettuale – spiega Lucia Ferrara del Cergas SDA Bocconi – emergevano alcune sfide e priorità d’intervento: rafforzare i programmi di comunicazione rivolta alle popolazioni target, promuovere strategie e interventi di sensibilizzazione continuativa, diffondere la cultura e l’accesso al test, investire sulla presa in carico continuativa del paziente. Da qui siamo ripartiti, in una seconda fase del progetto, con lo sviluppo di quattro casi studio che ci hanno permesso di sviluppare delle linee di intervento esplorative per dare risposte concrete a questi stessi ambiti d’intervento”.

Il caso del Piemonte ha consentito di individuare le opportunità per potenziare l’accesso al test e alla diagnosi precoce, mentre il caso della Puglia ha evidenziato le condizioni per migliorare l’integrazione ospedale territorio nella presa in carico del paziente. Il caso studio della Sicilia ha permesso di ragionare sulla presa in carico dei pazienti HIV come governo della filiera dei servizi e, infine, il caso del Veneto ha indagato la percezione dei pazienti HIV+ verso l’uso della telemedicina.

Quattro casi che rappresentano degli esempi utili per delineare che solo attraverso un sistema integrato si può rilanciare efficacemente la lotta all’HIV con l’obiettivo di contrastarne la diffusione, contenerne l’impatto e migliorare qualità di vita e di cura di chi ne è colpito. Tutto ciò in linea con i “6 95” gli obiettivi posti a livello internazionale nella lotta all’HIV, da raggiungere per il 2025.

Obiettivi ambiziosi che richiedono un’azione congiunta e sinergica di tutte le ‘anime della Salute’, a partire dalle Istituzioni, chiamate a lavorare insieme proprio nell’ottica di rilanciare la lotta alla pandemia dimenticata puntando ad eliminare le limitazioni strutturali e gestionali-organizzative che impediscono un efficace contrasto alla diffusione del virus e un’adeguata qualità di vita dei pazienti. Un’azione da parte di legislatori, comunità scientifica, amministratori nazionali e regionali che si è concretizzata oggi con la sigla del primo Manifesto per un rinnovato impegno nella lotta all’HIV, un patto inter-istituzionale per la messa in campo di strumenti e modelli organizzativi di rilevamento epidemiologico e sorveglianza, di prevenzione e di gestione della cronicità che siano dinamici e in linea coi tempi, in un’ottica multicanale, senza barriere nell’implementazione sul territorio, senza divari tra regioni.

“Come azienda farmaceutica impegnata da oltre 30 anni nell’area dell’HIV – afferma Valentino Confalone, Amministratore Delegato di Gilead Sciences Italia – non esauriamo il nostro impegno nella ricerca di terapie sempre più efficaci ma collaboriamo con istituzioni pubbliche e private, associazioni di pazienti e comunità scientifica per contrastare la diffusione dell’infezione e migliorare la qualità di vita e di cura delle persone che ne sono colpite. Il progetto APRI – continua Confalone – è un esempio concreto di questo impegno. Lo studio ha messo in evidenza criticità importanti ma la sua fase 2, con le 4 linee di azione identificate a livello regionale, offre un modello replicabile perché il Piano Nazionale possa vedere piena applicazione”.

L’iniziativa “L’HIV 40 anni dopo” è stata patrocinata da Istituto Medicina Solidale.