Tumore ovarico: niraparib approvato in Italia


Niraparib approvato anche in Italia per il mantenimento in prima linea in monoterapia per le pazienti con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado avanzato

Uno studio del Cnr scopre il processo a cascata alla base dell’invasione metastatica del carcinoma ovarico e della formazione di invadopodi, che coinvolge il recettore dell’endotelina e della b-arrestina1

L’avvento negli ultimi anni dei PARP inibitori ha cambiato il paradigma terapeutico del carcinoma ovarico e di conseguenza le prospettive e la qualità di vita delle pazienti. Una piccola rivoluzione che oggi fa registrare un ulteriore decisivo passo in avanti.

Niraparib, il PARP inibitore di GSK, è stato approvato anche in Italia per il trattamento di mantenimento in prima linea in monoterapia per le pazienti con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado avanzato (FIGO Stadio III e IV), alle tube di Falloppio o peritoneale primario, in risposta completa o parziale dopo chemioterapia a base di sali di platino.

La novità è che si tratta del primo farmaco di questa classe ad essere indicato come trattamento di mantenimento in prima linea per tutte le pazienti, indipendentemente dal loro stato mutazionale.

Con il via libera dell’autorità regolatoria, a poter beneficiare di niraparib non saranno quindi solo le pazienti con carcinoma ovarico BRCA mutato (BRCAm) – circa una su quattro tra quelle in stadio avanzato – ma anche le pazienti prive di mutazione BRCA (circa tre su quattro). Inoltre, nel caso delle pazienti BRCA mutate, la disponibilità di niraparib offre all’oncologo l’opportunità di scegliere il PARP inibitore più appropriato sulla base delle caratteristiche di ogni singola paziente.

A sostegno della nuova indicazione di niraparib ci sono i risultati dello studio PRIMA, che ha dimostrato nel contesto di mantenimento di prima linea un beneficio in termini di tempo libero da recidiva clinicamente e statisticamente significativo, sia nelle pazienti BRCA mutate (60%), che in quelle senza mutazione di BRCA (57%). Nella popolazione complessiva niraparib ha ridotto il rischio di progressione o morte del 38% rispetto a placebo. Questi risultati sono particolarmente importanti in quanto l’80% delle pazienti dopo la chemioterapia va incontro a recidiva.

“Il vantaggio aggiuntivo per le pazienti – spiega la prof. Domenica Lorusso, associato di ginecologia e ostetricia all’Universita’ Cattolica del Sacro Cuore di Roma e responsabile della ricerca clinica alla Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS – consiste nella monosomministrazione orale al domicilio, che ben si concilia con il ritorno ad una vita il più possibile vicina alla normalità al termine della chemioterapia. Oggi – prosegue Lorusso – non è più ammissibile che una paziente con carcinoma ovarico di nuova diagnosi non riceva alcuna terapia di mantenimento al termine della chemioterapia”.

Dati dirimenti in un contesto che rimane complicato. Il tumore ovarico è l’ottava neoplasia più comune nelle donne nel mondo. In Italia si calcola siano 5.200 ogni anno le nuove diagnosi, la maggioranza delle quali viene fatta in donne che hanno più di 40 anni.

L’indicazione degli esperti e delle stesse linee guida è di effettuare il test BRCA già al momento della diagnosi, perché il risultato del test ha sia un’implicazione terapeutica che un valore prognostico: le pazienti con mutazione BRCA hanno una prognosi migliore e rispondono meglio in generale a specifici trattamenti. Effettuare il test ha inoltre un valore preventivo, visto che le donne con la mutazione presentano un maggiore rischio di sviluppare anche altri tumori.

Lo sottolinea con forza la prof. Lorusso: “Anche in presenza di PARP inibitori come niraparib che possono essere prescritti indipendentemente dalla mutazione di BRCA, perchè hanno dimostrato efficacia in tutte le pazienti, il test per il BRC deve essere effettuato in tutte le donne con carcinoma ovarico gia’ alla diagnosi di malattia”.

Una volta individuata la mutazione, l’indagine si può estendere alle altre donne della famiglia e possono essere messe in atto delle strategie di prevenzione o di riduzione del rischio, come per esempio l’asportazione delle tube e delle ovaie (in futuro probabilmente solo delle tube), quando la donna ha completato la vita fertile.

Visto che sono stati finora il convitato di pietra vediamo il ruolo e le implicazioni dei geni BRCA1 e BRCA2. Entrambi contengono le informazioni per la sintesi di proteine implicate nei meccanismi di riparazione del DNA, processo fondamentale per la vita delle cellule. Quando subiscono delle mutazioni, ne risentono anche i processi cellulari in cui sono coinvolti, portando ad una aumentata probabilità di sviluppare tumori.

Si calcola che in Italia ci siano circa 150 mila persone con mutazioni a carico dei geni BRCA1 e BRCA2. Queste persone sono più portate a sviluppare carcinomi alla mammella, all’ovaio, al pancreas e alla prostata rispetto alla popolazione generale. Per quanto riguarda il carcinoma ovarico, le donne che presentano mutazioni al gene BRCA1 hanno fino al 40% di probabilità di ammalarsi, mentre se è interessato il gene BRCA2 la percentuale scende al 12%.

Veniamo al test.  Il test BRCA può essere effettuato direttamente su cellule del tessuto tumorale (test somatico) oppure su sangue, tramite un semplice prelievo (test germinale). Quali sono le differenze? Il “somatico” rivela la presenza di mutazioni ereditarie (germinali) e non (somatiche), insorte solo nella massa tumorale. Per questo, in caso di risultato positivo, il test viene ripetuto anche su sangue per verificare la natura della mutazione individuata (germinale o somatica). Il germinale riesce a individuare le mutazioni di BRCA ereditarie (germinali) presenti in tutte le cellule dell’organismo.  Se una donna affetta da carcinoma dell’ovaio o della mammella è risultata positiva al test BRCA germinale è possibile che anche altri membri della famiglia siano portatori della mutazione, proprio perchè la mutazione ha carattere ereditario.