HCV nelle carceri femminili: un nuovo studio


La SIMSPe ha istituto un network genere-specifico e ha condotto uno studio osservazionale sulla terapia test and treat dell’HCV nelle carceri femminili

La SIMSPe ha istituto un network genere-specifico e ha condotto uno studio osservazionale sulla terapia test and treat dell'HCV nelle carceri femminili

Per meglio valutare lo stato di salute e i bisogni specifici delle donne negli istituti penitenziari, che in tutto il mondo rappresentano una netta minoranza, la SIMSPe ha istituto un network genere-specifico e ha condotto uno studio osservazionale sulla terapia test and treat dell’epatite C in questa popolazione, presentato all’Italian Conference on AIDS and Antiviral Research (ICAR) 2021.

«Nella maggior parte dei casi le detenute hanno una storia di violenze e abusi e molto spesso un disagio psicologico. Rispetto agli uomini è più frequente l’abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa e anche un abuso alcolico» ha spiegato introducendo la sua relazione la dr.ssa Elena Rastrelli, U.O.C. Medicina Protetta-Malattie Infettive, Ospedale Belcolle, Viterbo. «È molto più frequente la probabilità di episodi di autolesionismo, fino al suicidio, e sono soggetti più fragili, in quanto spesso uniche responsabili della cura della prole e dei propri familiari. Sono quindi per la gran parte delle mamme».

In Italia le donne detenute rappresentano circa il 4% della popolazione carceraria. Il 25% sconta la pena in 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili, mentre il restante 75% è distribuito sul territorio nazionale in carceri prevalentemente maschili con sezioni femminili separate, quindi in un ambiente costruito e organizzato prevalentemente per gli uomini.

Epatite C nelle detenute italiane
I dati più recenti riportano che la prevalenza dell’infezione da virus dell’epatite C (HCV) nelle donne sottoposte a restrizione è almeno il doppio rispetto alla popolazione carceraria maschile e fino a 14 volte superiore rispetto alla popolazione generale.

La terapia con antivirali ad azione diretta (DAA) ha rivoluzionato molto di più il trattamento dell’HCV negli ambienti carcerari dove, con test e trattamenti rapidi, l’eradicazione dell’infezione diventa un obiettivo raggiungibile.

La Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe) ha creato un network genere-specifico che studia lo stato di salute e i bisogni specifici di genere per questa popolazione target in Italia (ROSE: Rete dOnne SimspE), reso necessario dal fatto che, altrimenti, informazioni e valutazioni sarebbero rappresentative quasi esclusivamente dei detenuti di sesso maschile.

Uno studio osservazionale sulla popolazione carceraria
Per conoscere le principali caratteristiche della cascata di cure per l’HCV nelle donne detenute è stato condotto uno studio osservazionale della durata di 18 mesi a cui hanno aderito 9 istituti penitenziari. Gli unici criteri per il reclutamento erano un’età superiore a 18 anni e l’accettazione tramite consenso informato scritto.

Sono state arruolate donne con una infezione attiva da HCV. La stadiazione della fibrosi epatica è stata valutata sia mediante fibroscan che con la misurazione del rapporto tra aspartato aminotransferasi (AST) e piastrine (indice APRI). I regimi terapeutici, la definizione della risposta virologica sostenuta (SVR) e la valutazione dell’efficacia della terapia hanno seguito le linee guida standard. L’abbandono è stato definito come un’interruzione non pianificata o un trattamento non iniziato.

Da giugno 2018, delle 486 donne arruolate (19% del totale delle donne detenute in Italia) in 46 sono risultate avere una infezione attiva da HCV e tutte hanno acconsentito a sottoporsi al trattamento. L’età media era 45 anni, in 44 provenivano dall’Italia e 2 dai paesi dell’Europa orientale, 44 avevano una storia di tossicodipendenza per via endovenosa e solo 2 avevano avuto precedenti trattamenti per l’infezione cronica da HCV.

La coinfezione da HIV era presente in 3 soggetti (tutti in terapia HAART con soppressione virale). I genotipi di HCV osservati erano: 30 pazienti con genotipo 3, 15 con genotipo 1A, 8 con genotipo 1B, 1 paziente con genotipo 2 e 3 pazienti con genotipo 4.

Lo stadio della fibrosi epatica è stato valutato con il metodo APRI (11 pazienti) o con il fibroscan (35 pazienti). La maggior parte delle partecipanti (41, 89%) aveva una fibrosi bassa (punteggio APRI <1,5; METAVIR F0-F1 secondo fibroscan). In generale i livelli di fibrosi epatica erano bassi e tutte le 11 donne con fibrosi grave (F4) avevano più di 50 anni.

Risposta virologica sostenuta 12 settimane dopo la fine della terapia
Solo 4 pazienti non hanno completato il trattamento, 1 per trasferimento domiciliare e 3 per trasferimento in altro istituto prima che potessero iniziare la terapia. Delle 42 donne che hanno completato il trattamento, tutte hanno raggiunto la SVR 12 settimane dopo la fine della cura.

«La terapia con DAA è efficace anche in questo contesto e i nuovi regimi di 12 e anche 8 settimane si sono rivelati molto utili per raggiungere anche questa minoranza, che di solito è in carcere per reati minori e ha una durata della pena detentiva decisamente più breve rispetto agli uomini» ha concluso la relatrice. «Le donne detenute hanno spesso una storia di tossicodipendenza e disagio mentale, violenza e fragilità sociale, tutti fattori che predispongono a un maggior rischio di infezione da HCV, mancanza di accesso allo screening e difficoltà di mantenimento in cura. Servono strategie specifiche per genere che rimodellino l’intero processo di cura e, solo conoscendo a fondo questa popolazione, si possono attuare azioni efficaci».