Tumore del polmone: in Lombardia più diagnosi precoci


Tumore del polmone: in Lombardia aumentano le diagnosi precoci. Ogni anno si registrano circa 7.800 nuovi casi

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Ogni anno, in Lombardia, si registrano circa 7.800 nuovi casi di tumore al polmone (5.000 negli uomini e 2.800 nelle donne). Numeri che potrebbero andare incontro a un aumento a causa degli effetti indiretti del Covid-19. In Lombardia, nei mesi cruciali della pandemia, infatti, si è registrata una riduzione degli accessi in ospedale per il timore del contagio da parte di tutti i pazienti oncologici, compresi quelli con carcinoma polmonare, con il rischio di gravi conseguenze sul fronte della cura. Nonostante, però, il periodo difficile arriva un segnale positivo: nella Regione si sta assistendo a un incremento delle diagnosi di tumore al polmone in fase precoce.“Il riconoscimento tempestivo della malattia – afferma Sabrina Rossi, Unità Operativa di Oncologia Medica dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (MI) – è un aspetto chiave in una neoplasia in cui l’immediata presa in carico del paziente è fondamentale e può migliorare in modo significativo le possibilità di sopravvivenza e la qualità della vita”.

Per una diagnosi tempestiva di cancro fondamentale è il ruolo determinato dagli screening oncologici. Anche in questo ambito, però, la pandemia da Covid ha pesato in modo significativo, costringendo allo stop forzato in tutto in Paese. Nonostante questa condizione generalizzata, all’Humanitas – il cui il Cancer Center non ha mai interrotto le proprie attività a supporto dei pazienti – si sono potuti osservare importanti esiti proprio grazie alle misure messe in atto per il monitoraggio del virus.

“Per il cancro del polmone, a differenza di altre neoplasie, non esiste un programma di screening che permetta di individuare la patologia nelle primissime fasi – chiarisce la dott.ssa Rossi -. In compenso però l’incremento delle Tac al torace per monitorare le polmoniti da Covid ha consentito di arrivare a diagnosi precoci di carcinoma polmonare, con esiti significativi sul piano terapeutico”.

Dall’altro lato, l’utilizzo della tomografia computerizzata, parte indispensabile per la pianificazione del trattamento radiante, è stato esteso al distretto toracico a tutti i pazienti, candidati a radioterapia, proprio per l’individuazione dei segni precoci da Covid. “In questo modo – spiega il dott. Franceschini Dipartimento di Radioterapia e Radiochirurgia dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas – siamo riusciti ad intercettare precocemente pazienti positivi al coronavirus che non manifestavano ancora sintomatologia, per i quali sono stati adottati gli interventi idonei e si è scongiurato il rischio di infezione nei reparti dei più fragili”. In una condizione di estrema urgenza e novità come quella prospettata dalla pandemia, si è potuto così osservare la potenzialità di un unico strumento a vantaggio di diverse categorie di pazienti, con importanti benefici su entrambi i versanti.

“Dopo l’identificazione del carcinoma polmonare, la nostra prassi clinica prevede una discussione multidisciplinare di tutti gli esperti per individuare la strategia terapeutica più valida – spiega la dott.ssa Rossi -. Sul fronte della cura, ci avvaliamo, nei casi che lo prevedono, dell’immunoterapia dopo chemio-radioterapia, con importanti benefici”. La validità di questo approccio, nei pazienti in stadio terzo non resecabile, è stata confermata dall’aggiornamento a 5 anni dei risultati dello studio PACIFIC presentati lo scorso giugno al congresso della Società americana di oncologia medica (ASCO).
I risultati di PACIFIC hanno dimostrato i grandi benefici apportati dall’immunoterapia in pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) in stadio III non resecabile e che non sono andati in progressione dopo trattamento chemio-radioterapico. Un paziente su tre con NSCLC presenta alla diagnosi proprio una malattia in stadio III, un setting dove la maggior parte delle volte il tumore non può essere rimosso chirurgicamente. Nello studio, si è registrato un tasso di sopravvivenza globale a cinque anni del 42,9% per i pazienti trattati con una molecola immunoncologica, durvalumab, rispetto al 33,4% con placebo dopo chemio-radioterapia. Dopo il trattamento immunoterapico della durata massima di un anno, un paziente su tre trattato con durvalumab non è andato incontro a progressione cinque anni dopo l’arruolamento rispetto al 19% del placebo.

“Gli importanti risultati dello studio PACIFIC trovano conferma anche nei dati di ‘real life’, cioè della pratica clinica quotidiana – conclude il dott. Franceschini -. Diversi studi, anche italiani, hanno evidenziato come a 2-3 anni i dati riscontrati nelle realtà ospedaliere sono assolutamente sovrapponibili a quelli dello studio registrativo. Le osservazioni continueranno nei prossimi anni e sarà possibile verificare se saranno validati anche i risultati a 5 anni, con il forte beneficio apportato dal durvalumab”.