Clostridioides difficile: spesso il trattamento è tardivo


L’infezione da Clostridioides difficile è uno dei principali problemi di sanità pubblica nel mondo: focus su fattori di rischio e gestione del paziente

Infezioni ricorrenti da Clostridium difficile: successo in uno studio di fase 3 con spore batteriche orali attive sul microbioma

L’infezione da Clostridioides difficile (CDI) è uno dei principali problemi di sanità pubblica nel mondo basti pensare che rappresenta circa il 44.6% delle infezioni gastrointestinali e il 4.9% di tutte le HAIs (Healthcare associated infections). Tra le principali difficoltà nella gestione di questa grave infezione vi è la variabilità dei dati, dei test disponibili e delle notifiche registrate. Esiste una problematica di sottodiagnosi e di trattamento tardivo e non sempre corretto oltre alla gravosa incidenza di recidive. Questi ed altri aspetti riguardanti la gestione del punto di vista clinico ed epidemiologico del CD sono stati affrontati dal dr. Nicola Petrosillo, Direttore Dipartimento Clinico e di Ricerca in Malattie Infettive, INMI L. Spallanzani di Roma durante la XIX edizione del congresso SIMIT.

“Ci sono differenze sia nelle politiche dei test che nella sorveglianza come mostra lo studio LuCID condotto in 60 ospedali (Davies k. Et al., Eur J clin Microbiol Inf Dis 2016; 35 (12): 1949-1956) europei, in 3 paesi: Italia, Francia e UK.

Il tasso medio annuale per ospedale era più basso nel Regno Unito e più alto in l’Italia (1.5 vs 4.7 casi/10.000 giorni-pazienti). Questo è probabilmente dovuto a una forte politica di controllo del Clostridioides nel Regno Unito dopo la gravissima situazione che hanno avuto nei 10 anni precedenti. Come anche il tasso di test eseguiti è più alto in UK rispetto a Italia e Francia (50.710000 pbds vs 31.5 e 30.3, rispettivamente con p<0.001).

Problema sottodiagnosticato
Lo studio LuCID mostra un altro aspetto importante: soltanto il 58% dei campioni diarroici vengono testati per C. difficile nei 3 paesi e solo il 64% degli ospedali usano le raccomandazioni europee relative all’algoritmo del test. Si evince anche che chi usa la PCR per fare la diagnosi ha tassi di notifica notevolmente maggiori di infezione da CD.

Altro dato rilevante è la differenza esistente in termine sia di tasso di test rispetto alla dimensione dell’ospedale (piccolo, medio, grande), sia il numero medio di casi di C. difficile che risulta essere inversamente proporzionale al tasso di test.

“Questo vuol dire che negli Stati in cui vi è maggiore sorveglianza, è presente un sistema di controllo più efficiente e quindi con meno infezioni dovute a questo patogeno” commenta Petrosillo.

Nel report annuale 2016 riportante i dati europei degli ECDC, con riferimento a 556 ospedali sottolinea 7711 casi di infezione ed evidenzia che il 75% circa sono associati alle procedure assistenziali, l’8% circa sono delle forme ricorrenti e il 17% sono casi complicati.
La letalità in questa analisi è intorno al 4% e l’incidenza cruda associata alle cure sanitarie è di 2.4 casi per 10000 giorni/paziente.

Rispetto alle raccomandazioni per le procedure diagnostiche, queste vengono seguite solo dal 71% delle strutture riportate nel suddetto report.
Altro dato interessante è la resistenza al metronidazolo che risulta intorno al 5%, dato che va considerato nella gestione clinica dei pazienti.
Il dato di incidenza della diffusione in Europa si riferisci a quegli Stati che forniscono almeno numeri da più di 5 ospedali.

“L’Italia purtroppo non è inserita anche se ci stiamo muovendo in questa direzione di maggiore sorveglianza” aggiunge Petrosillo.
Nell’Est Europa l’incidenza è molto elevata, ma anche in Spagna e nei Paesi Scandinavi.
In US nel 2014 il C. difficile era il patogeno più frequentemente identificato associato alle procedure assistenziali e nel 2018 continuava ad essere il numero uno delle infezioni associate all’assistenza sanitaria. (magill SS et al NEJM 2014; 370; 1198e1208; 2018 379: 1732e 1744).

“In epoca Covid allo Spallanzani abbiamo condotto uno studio osservazionale retrospettivo multicentrico su 8402 pazienti Covid di 8 ospedali. Si sono verificati 38 casi di CDI di cui 31 a insorgenza ospedaliera e 6 a insorgenza comunitaria ma associata a procedure sanitarie con un’incidenza di 4.4x 10000 giorni-paziente che è quasi il doppio di quella europea vista prima” spiega Petrosillo.
I centri che hanno partecipato, insieme allo Spallanzani, sono diffusi lungo tutto lo stivale.

I risultati indicano che le variabili associate al contrarre un’infezione da CD sono state una precedente ospedalizzazione (p=0.001), una precedente terapia steroide (p=0.008) e uso di antibiotici durante la degenza ospedaliera (p=0.008). (J Clin Med 2020, 9, 3855)

Quali sono i meccanismi che possono determinare l’infezione da C. diff in corso di SarsCov2?
Uno di questi è lo squilibrio della risposta immune sia adattativa che innata dovuta alla replicazione virale che riduce la risposta immune.
Un altro aspetto importante è il danno di barriera gastrointestinale nell’ospite esercitato proprio da questo coronavirus.
“Spesso i pazienti con Covid vengono ospedalizzati e trattati con antibiotici talora senza motivazione generando un’alterazione del microbioma intestinale” precisa Petrosillo.

Altro elemento importante che può alterare il decorso clinico e facilitare la diffusione del C. diff è la diagnosi ritardata perché i pazienti con Covid hanno spesso sintomi GI e diarrea che vengono attribuiti all’azione del coronavirus anziché al Clostridioides.
“Uno degli elementi importanti nella diffusione del CD nelle strutture Covid è proprio il fatto che ci può essere una ridotta aderenza alle misure di “reduction of infection control”; sembra strano ma in una situazione in cui il paziente viene isolato e gli operatori sanitari sono estremamente guardinghi, questi ultimi hanno una particolare attenzione alla propria sicurezza” evidenzia Petrosillo.

Questo emerge anche dalla letteratura, i pazienti che vengono ricoverati per Covid non hanno in genere coinfezioni batteriche al momento dell’esordio, queste si presentano all’ingresso in ospedale solo nel 7%, mentre poi la maggior parte delle persone le acquisisce in terapia intensiva. “Questo vuol dire che l’uso routinario di antibiotici nei pazienti con Covid non è necessario, anzi può portare a squilibri del microbioma intestinale causa di infezione da C. diff” sottolinea Petrosillo.

Il problema si pone nelle terapie intensive dove è possibile si sviluppino coinfezioni batteriche legate, come detto sopra, a una ridotta attenzione alla trasmissione crociata in setting dove c’è sovraffollamento e poco staff medico sanitario.

Infezioni ad insorgenza comunitaria
Un altro aspetto che sta emergendo sempre più è quello delle infezioni da C. diff associate alla comunità o comunque ad esordio in comunità.
I dati di sorveglianza mostrano che circa il 20-27% di tutti i casi di CD sarebbero associati alla comunità.

“Una meta analisi di Balsells et al., 2019 (J Global Health) ha trovato una incidenza di infezione da C. diff in comunità dello 0.55/1000 ricoveri per anno che non è un piccolo numero; è rilevante il fatto che questi pazienti sono più giovani e con minori punteggio di comorbosità e minore esposizione ad antibiotici rispetto a chi contrae l’infezione nelle strutture assistenziali” commenta Petrosillo.
Il numero di casi è ovviamente massimo come incidenza nelle terapie intensive ma sono alti anche nelle strutture sanitarie assistite, e negli ospedali tra persone con età avanzata.

È importante conoscere bene i dati di incidenza e di epidemiologia di questo microorganismo perché il differente profilo epidemiologico dei pazienti con le forme comunitarie può causare una sottovalutazione, sottonotifica con dei tassi più bassi rispetto a quelli reali di incidenza.
Lo studio EUCLID ha mostrato che l’età mediana dei pazienti nei quali non viene fatta la diagnosi di infezione è significativamente più bassa rispetto ai pazienti che vengono identificati.

Il tasso di sottodiagnosi ha un forte impatto perché pregiudica i dati di sorveglianza, può portare a un ritardo nel prescrivere una terapia adeguata, può aumentare la possibilità della trasmissione intra ospedaliera perché le misure di controllo vengono ritardate.

Ricadute di CDI
Le ricadute di CDI sono uno dei grandi problemi di questa infezione che possono ripresentarsi più volte nello stesso paziente. Queste ricorrenze hanno un forte impatto sulla qualità di vita, ma anche su morbosità e mortalità. Il rischio di rCDI va dal 10.1% al 50.8%.
La via che porta alla recidiva non è nota e i dati sono limitati anche se impatta molto la disbiosi; purtroppo gli studi riportano molte eterogeneità.

Altri fattori di rischio di recidiva sono età avanzata, uso di antiacidi e di antibiotici e a volte uso di PPI ma anche insufficienza renale.

Trattamento del CD, attuale e futuro
“Bisognerebbe pensare a un uso più ragionato e consapevole degli antibiotici, riequilibrare il microbioma intestinale ad esempio usando dei bioterapeutici come il trapianto di feci ma anche derivati industriali o dei CD non tossigenici che spiazzino la forma tossigenica ma anche nuovi vaccini contro le tossine da CD e introdurre antibiotici a spettro strettissimo contro CD” precisa Petrosillo.

“Tra gli antibiotici è molto promettente il ridinilazolo ma attualmente finchè non avremo antibiotici a spettro d’azione molto stretto dobbiamo usare quelli che abbiamo con delle strategie di tapering e di pulsaggio come mostra il trial EXTEND sulla fidaxomicina.Bisogna mettere in piedi delle strategie comuni anche per vancomicina e fidaxomicina” prosegue Petrosillo.

Dal punto di vista del trattamento immunologico abbiamo anticorpi monoclonali come il bezlotoxumab. Sui vaccini c’è un ritardo nella ricerca dopo il ritiro di quello di Sanofi Pasteur; restano promettenti quello di Valneva e quello di Pfizer.
“Per quanto riguarda la neutralizzazione degli antibiotici, che magari siamo costretti a dare per altri motivi, poiché possono causare la disbiosi intestinale, si può intervenire con una beta lattamasi come la ribaxamasi oppure con dei carboni attivi come DAV132. Questi sono già utilizzati in altri paesi ma non ancora approvati in UE” sottolinea Petrosillo.

Il trapianto di microbiota fecale andrebbe ampliato anche a prodotti che possono essere somministrati con clistere come l’RBX2660 ma anche a terapie standardizzate con delle capsule e anche ai veri e propri bioterapeutici cioè derivati industriali di materiale fecale (es. SER 262 che sono spore di 12 batteri anaerobi, NTCD-M3 cioè spore di CD non tossigenico e VE303).

Tutti questi interventi rappresentano l’approccio a questo microorganismo per i prossimi anni ma devono tenere in considerazione alcuni elementi importanti:
1. efficacia nell’uomo, che ad esempio per i vaccini non è ancora nota
2. tempistica di somministrazione, cioè il momento preciso in cui il loro utilizzo può essere utile per ridurre la patologia in atto e prevenire le ricorrenze
3. durata dell’intervento
4. uso per la prevenzione dell’infezione primaria.
5. uso nella prevenzione dell’infezione ricorrente
6. costi

In conclusione, l’infezione da Clostridioides difficile è uno dei maggiori problemi di sanità pubblica nel mondo. La sottodiagnosi non va trascurata perché ha un forte impatto nella gestione e può essere anche causa della maggiore diffusione a livello ospedaliero. Le forme ricorrenti hanno un forte impatto sulla qualità di vita dei pazienti, sulla morbosità e mortalità. Non è chiara quale sia la via che porta alla recidiva anche se la disbiosi è l’elemento finale determinante. Abbiamo necessità di conoscere a fondo tutti gli elementi che portano alla disbiosi e questi vanno considerati nella gestione terapeutica dei pazienti.