Hiv: terapia rapida accelera la soppressione virale


Con la strategia di avvio rapido della terapia nei pazienti con HIV maggiore probabilità di soppressione virale e più rapida riduzione del rischio di trasmissione

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La recente strategia di avvio rapido della terapia nei pazienti con HIV comporta una maggiore probabilità di soppressione virale a un anno e una più rapida riduzione del rischio di trasmissione, uno strumento importante per il controllo dell’epidemia. Di questo approccio se ne è discusso in occasione del congresso nazionale della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) 2020 dello scorso dicembre.

Secondo quanto riportato dal rapporto UNAIDS 2020, che fa riferimento ai dati del 2019, si stima che nel mondo siano 38 milioni le persone che vivono con l’HIV, con poco meno di due milioni di nuove diagnosi (un milione e 700 mila) nel 2019.

Inquadrando questa numerosità all’interno dei trend temporali a partire dal 1990 si osservano un aumento della popolazione, una crescita dei casi prevalenti per via dell’aumento della sopravvivenza, un minor numero di decessi e nuove diagnosi. Di conseguenza il serbatoio potenziale delle persone che vivono con HIV aumenta ma diminuiscono sia i decessi, che hanno raggiunto il picco intorno a metà degli anni 2000 per poi scendere progressivamente, che le nuove infezioni, infatti dal 2010 in avanti si osserva una lenta ma progressiva riduzione del numero di nuove diagnosi ogni anno.

Il target 90/90/90 dell’Oms fissato per il 2020, che mirava a ottenere:

  • il 90% di tutte le persone che vivono con l’Hiv a conoscenza del proprio stato di infezione
  • il 90% di tutte le persone con diagnosi di infezione da Hiv sottoposto a una terapia antiretrovirale sostenuta
  • il 90% di tutte le persone in terapia antiretrovirale in soppressione virale,

consente attraverso vari step di raggiungere complessivamente l’obiettivo del 73% di persone virologicamente soppresse rispetto al totale del serbatoio di persone che vivono con l’HIV.

Dal momento che i dati UNAIDS mostrano che attualmente sono virologicamente soppresse il 59% delle persone che vivono con HIV, non sarà facile raggiungere la quota del 73% a livello globale nel prossimo rapporto relativo all’anno 2000, nonostante vi siano diversi paesi on target. Danimarca e UK sono l’esempio più virtuoso in Europa, infatti hanno raggiunto i tre obiettivi 90 e sono abbondantemente al di sopra del 73%. Le differenze più visibili tra i vari paesi europei riguardano l’Europa dell’est, molto lontana dal raggiungimento del target.

«In Italia abbiamo dei dati un po’ eterogenei in quanto quelli ufficiali del CDC non ci vedono on target per il 2020, ma attingendo a fonti diverse l’Italia potrebbe essere più avanti di quanto riportato» ha commentato il prof. Andrea Antinori dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma. «Una stima dello scorso anno presentata al congresso UNLAIDS riportava una percentuale di circa il 71% di soggetti virologicamente soppressi nel 2016, quindi potremmo essere abbastanza vicini all’obiettivo e questo spiegherebbe come mai nell’ultimo rapporto ISS si evidenzi una progressiva riduzione del numero di nuove diagnosi ogni anno, con un’incidenza al di sotto della media europea come numero di casi per 100mila abitanti, forse anche per effetto dell’aumento del tasso di soppressione virale, quindi della minore trasmissibilità da parte delle persone infette».

Covid e HIV
Secondo i modelli Oms la pandemia da Covid-19 si intreccia con l’HIV in modo abbastanza preoccupante, deponendo a favore del fatto che le due epidemie abbiano la tendenza a potenziarsi, soprattutto in alcuni paesi. L’interruzione della fornitura dei servizi sia di prevenzione, che di test, che di accesso alle cure dovuta al Covid potrebbe in qualche misura influenzare o addirittura compromettere più dell’80% dei programmi HIV in oltre 100 paesi a livello globale -ha riferito Antinori- e il lockdown potrebbe avere riflessi dal punto di vista economico anche sulla produzione e distribuzione di farmaci generici che sono la principale risorsa della terapia a livello globale. Secondo alcune stime questo potrebbe tradursi in un aumento dei morti per AIDS da 500mila a 1 milione, soprattutto nei paesi dell’Africa sub-sahariana, in particolare in Sudafrica dove l’intreccio tra le due epidemie è più evidente.

Inizio rapido della terapia (rapid initiation, RAPID ART)
La rapid initiation del trattamento appare oggi uno dei principali strumenti non solo per il controllo dell’infezione a livello individuale, ma soprattutto per il controllo della viremia nella popolazione. Il paradigma U=U è rafforzato dall’ipotesi di trattamento rapido nel controllo complessivo della replicazione virale e soprattutto della malattia.

Tra i pro e i contro di un inizio rapido del trattamento, oltre alla maggiore probabilità di soppressione a un anno e ad alcuni benefici clinici immunologici che sono stati dimostrati in alcuni sottogruppi di pazienti, in particolare quelli con malattia molto avanzata e con infezione primaria, si osserva una più rapida riduzione del rischio di trasmissione, che rappresenta uno strumento importante per il controllo dell’epidemia.

I dati statunitensi suggeriscono che questo approccio potrebbe supportare una maggiore equità nella gestione dell’infezione, in quanto favorisce l’accesso alle cure e la retention in care per alcuni sottogruppi più socialmente sfavoriti. Specialmente in presenza di importanti disparità sociali come nella realtà americana, come nel caso della comunità afro americana, degli ispanici e delle persone di origine latina, che negli Usa sono meno propensi a ricevere la terapia antiretrovirale rapidamente dopo la diagnosi e quindi sperimentano più facilmente un ritardo dell’inizio delle cure. In questo senso i programmi di accesso rapido potrebbero contribuire a riequilibrare questa situazione.

Una delle potenziali limitazioni di una ART in regime rapid potrebbe essere un’incompleta ottimizzazione per via dell’indisponibilità di alcuni esami, ad esempio per i test per l’HBV e della funzione renale, ma soprattutto per i test di resistenza genotipica che sono fuori dalla portata di un inizio immediato della terapia e che nel caso di utilizzo di regimi a bassa barriera genetica può comportare un rischio più elevato di resistenza.

L’esperienza più rilevante a livello globale sulla rapid initiation è quella di San Francisco, che ha sposato questa linea a livello di comunità cittadina con una serie di programmi sia sperimentali che di accesso alla sanità pubblica. «Nel San Francisco RAPID Study pubblicato nel 2017 sono evidenziate le tre curve in cui la strategia rapid è più veloce nel raggiungimento della soppressione virale a meno di 200 copie, che sappiamo essere la soglia per la non trasmissione del virus» ha spiegato Antinori.

«Nella popolazione di San Francisco, socialmente abbastanza difficile e dove la quota di persone homeless o comunque con problemi sociali e instabilità abitativa è di circa 1 su 5, è stato raggiunto l’80% di applicazione di questa strategia, nel 92% dei casi in meno di una settimana e con il raggiungimento meno di 200 copie nel 91% dei soggetti» ha continuato.

I risultati presentati al congresso CROI da un team di ricerca di New Orleans mostrano come questa strategia possa funzionare anche in diverse fasce di età, oltre che in diverse etnie, supportando l’equità di intervento.

La strategia rapid è interessante anche in chiave di intreccio con il Covid-19, date le nuove esigenze di semplificazione, razionalizzazione e di diversa organizzazione dei servizi sanitari correlati dedicati all’HIV, in termini di riduzione del numero di test al basale per ridurre gli accessi, di numero di appuntamenti e della necessità di utilizzare regimi a bassa tossicità e ad alta barriera genetica che possono consentire di evitare il test di resistenza.

Uno dei maggiori problemi di questo approccio è la sua complessità: l’inizio del trattamento non è solo una questione medica ma richiede una serie di valutazioni diagnostiche, sociali, comportamentali e relazionali, mirate a preparare il paziente per ottenere un’aderenza alla terapia e una retention in care ottimali. Si tratta infatti di un modello organizzativo completamente diverso che richiede più costi e molta preparazione rispetto al modello standard.

Una strategia adottata dalle linee guida
Le linee guida americane hanno sposato ormai completamente questa strategia mentre quelle europee sono più prudenti, supportando il concetto che la terapia debba essere iniziata rapidamente ma non necessariamente in un regime di rapid initiation, che deve essere preferito o raccomandato soprattutto in situazioni particolari come la malattia avanzata, la gravidanza o l’infezione acuta, quindi nei pazienti più vulnerabili dal punto di vista anche delle ricadute cliniche e nei quali l’avvio precoce del trattamento potrebbe comportare un beneficio clinico più evidente.

Tutte le linee guida concordano che, nel caso in cui sia necessario o si opti per una strategia di avvio immediato del trattamento, vanno a restringersi automaticamente le opzioni per regimi ad alta barriera genetica. In molti centri e organizzazioni sanitarie non sarebbe infatti disponibile un test genotipico, i cui tempi non sono compatibili con un inizio della terapia anche entro i sette giorni dalla diagnosi. Devono inoltre essere regimi con il minore tasso di tossicità, per evitare che la biochimica alterata del paziente possa orientare diversamente il trattamento.

Come infatti emerso nel programma di San Francisco, molto spesso l’inizio della terapia avviene quando gli esami biochimici potrebbero non essere disponibili e non si avrebbero informazioni complete sui profili renale e metabolico. Da qui l’importanza di poter disporre di farmaci come gli inibitori dell’integrasi di seconda generazione nelle combinazioni bictegravir, emtricitabina e tenofovir alafenamide (BIC/FTC/TAF) o dolutegravir (DTG), emtricitabina o lamivudina (3TC) e TAF o tenofovir disoproxil fumarato (TDF), ormai raccomandate a tutti i livelli. Con questa strategia si riducono infatti le opzioni terapeutiche, dal momento che non è raccomandata la duplice terapia, per via delle limitazioni conseguenti all’impossibilità di effettuare il test di resistenza.