Inibitori di pompa aumentano rischio diabete


L’uso regolare e prolungato degli inibitori di pompa aumenta il rischio di diabete secondo un’analisi pubblicata sulla rivista Gut

L'uso regolare e prolungato degli inibitori di pompa aumenta il rischio di diabete secondo un'analisi pubblicata sulla rivista Gut

L’uso regolare di inibitori della pompa protonica, soprattutto se superiore ai due anni, è associato a un aumento del rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, che però si riduce sospendendo la tarapia. Sono i risultati di un’ampia analisi prospettica del trial Nurses ‘Health Study pubblicata sulla rivista Gut.

«L’uso regolare di inibitori della pompa protonica (PPI) è probabilmente associato a un aumento del rischio di diabete di tipo 2, in particolare per quanti ne fanno un uso prolungato» hanno scritto il primo autore dello studio Jinqiu Yuan e colleghi, del The Seventh Affiliated Hospital presso la Sun Yat-sen University di Shenzhen, in Cina. «Considerando quanto sia diffuso l’impiego di questi farmaci, il numero complessivo di casi di diabete associati all’assunzione di inibitori della pompa protonica potrebbe essere considerevole».

Rischio di diabete correlato all’uso dei PPI
I ricercatori hanno analizzato i dati di oltre 80mila donne che avevano partecipato al Nurses’ Health Study, oltre 95mila al trial Nurses’ Health Study II e quasi 29mila uomini allo studio Health Professionals Follow-up Study (HPFS) senza diabete al basale, con un tempo mediano di follow-up di 12 anni in NHS e NHS2 e 9,8 anni in HPFS. Ogni 2 anni dopo il basale, i partecipanti dovevano riferire riguardo all’eventuale uso regolare dei PPI nei due anni precedenti, definito come l’assunzione due o più volte a settimana.

Negli utilizzatori di PPI il rischio assoluto di diabete era 7,44 per 1.000 anni-persona rispetto a 4,32 tra i non consumatori. Dopo l’aggiustamento per l’uso continuativo per 2 anni e la stratificazione per età e periodo di studio, l’assunzione di queste molecole è stata associata a un aumento del rischio di diabete del 74%. L’aggiustamento multivariabile in base a fattori demografici, abitudini di vita, comorbidità, altri farmaci e indicazioni cliniche per l’uso dei PPI ha in parte attenuato l’associazione (HR, 1,24). Nel gruppo HPFS non sono emerse associazioni significative (HR, 1,12), probabilmente per via della minore dimensione del campione.

L’assunzione di PPI per un tempo inferiore ai 2 anni è stato associato a un aumento del 5% del rischio di diabete (HR 1,05), che passava al 26% (HR 1,26) con un utilizzo oltre i 2 anni. È stata anche rilevata un’associazione tra la sospensione dell’uso di questi farmaci e una riduzione del rischio di diabete: rispetto agli attuali utilizzatori di PPI, quanti ne avevano interrotto l’assunzione negli ultimi 2 anni presentavano un rischio del 17% inferiore (HR 0,83), che saliva al 19% (HR 0,81) se la sospensione superava i 2 anni.

Coinvolti anche H2 antagonisti e microbioma intestinale
I ricercatori hanno anche esaminato il rischio di diabete associato all’uso degli H2 antagonisti (H2RA), che hanno le stesse indicazioni d’uso dei PPI, rilevando anche in questo caso una correlazione (HR aggiustato, 1,14). Il fatto che gli H2RA meno potenti avessero un’associazione meno pronunciata con il rischio di diabete ha portato gli autori a ipotizzare che la soppressione acida possa essere correlata alla patogenesi della malattia.

Hanno inoltre suggerito che le modifiche al microbioma intestinale potrebbero essere alla base di un aumento del rischio. Dal momento che è stato dimostrato che l’uso dei PPI riduce la diversità del microbioma intestinale e ne altera il fenotipo, questi cambiamenti potrebbero portare a un aumento del peso, alla sindrome metabolica e a malattie epatiche croniche, che a loro volta potrebbero aumentare il rischio di sviluppare il diabete.

«Considerato il potenziale rischio di diabete e di altri effetti collaterali, come le infezioni enteriche, i medici dovrebbero bilanciare attentamente i benefici e i rischi derivanti dalla prescrizione di PPI, in particolare per l’uso continuo a lungo termine» hanno concluso gli autori. «Per i pazienti che devono assumerli per periodi prolungati si raccomanda lo screening dei livelli glicemici e del diabete di tipo 2».

Servono conferme da altri studi
Non è dello stesso parere David Leiman della Duke University, Durham, Carolina del Nord, che in una intervista ha dichiarato che «dai dati disponibili sembra emergere una forte raccomandazione, ma non è chiaro come potrebbe essere messa in pratica. Penso invece che i medici dovrebbero utilizzare i PPI alla dose efficace più bassa e con le indicazioni appropriate»

«Nel complesso, i risultati dello studio possono essere classificati come provocatori e potrebbero giustificare ulteriori studi di approfondimento. Sarebbero necessari trial randomizzati e controllati o molti altri studi osservazionali per stabilire la causalità tra PPI e rischio di diabete, e in ogni caso i risultati dello studio attuale non giustificano un cambiamento nella pratica clinica» ha aggiunto, osservando che il disegno dello studio in questione rende probabile che molte o tutte le associazioni osservate siano dovute a fattori confondenti. Inoltre ritiene che la ricerca era limitata dalla sua natura osservazionale e che mancavano informazioni dettagliate su dosaggio, frequenza e indicazioni per l’uso dei PPI.

Bibliografia

Yuan J et al. Regular use of proton pump inhibitors and risk of type 2 diabetes: results from three prospective cohort studies. Gut. 2020 Sep 28;gutjnl-2020-322557.

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