Alzheimer: scambio plasmatico rallenta i sintomi


Lo scambio plasmatico con la sostituzione dell’albumina può essere efficace per rallentare i sintomi della malattia di Alzheimer secondo un nuovo studio

Lo scambio plasmatico con la sostituzione dell'albumina può essere efficace per rallentare i sintomi della malattia di Alzheimer secondo un nuovo studio

Lo scambio plasmatico (PE) con la sostituzione dell’albumina può essere efficace per rallentare i sintomi della malattia di Alzheimer (AD). È quanto suggerisce una nuova ricerca, i cui risultati sono stati presentati alla Alzheimer’s Association International Conference (AAIC) 2020, che si è tenuta online quest’anno a causa della pandemia di COVID-19, e sono stati pubblicati contemporaneamente in “Alzheimer’s and Dementia”.

I risultati dello studio di fase 2b/3 AMBAR hanno mostrato che il trattamento, che mira a rimuovere la beta amiloide (Aβ) dal plasma, è stato associato a una diminuzione del 60% del declino funzionale e cognitivo nei pazienti con AD moderata.

La riduzione del declino cognitivo scoperto dallo studio è più evidente di quella segnalata in altri trattamenti sperimentali che prendono di mira hanno come target l’ Aβ, come gli anticorpi monoclonali, ha sottolineato il coautore Antonio Pàez, direttore medico del programma AMBAR, Alzheimer’s Research Group, Grifols, Barcellona (Spagna).

I risultati «aprono un nuovo percorso per lo sviluppo di terapie sostitutive delle proteine del plasma non solo nell’Alzheimer, ma anche in altre malattie degenerative che stiamo  progettando di studiare» ha detto Pàez.

Sostituzione di albumina di donatori sani
I trattamenti PE, che sono stati disponibili per diversi decenni, sono utilizzati per trattare una serie di disturbi neurologici, immunologici e metabolici. Il trattamento prevede la plasmaferesi, per cui il plasma viene separato dalle cellule del sangue (globuli rossi, globuli bianchi, piastrine, etc.) e le sostanze tossiche vengono rimosse. L’albumina nel plasma, a cui è legato l’ Aβ plasmatica, viene sostituita da un nuovo prodotto commerciale di albumina a base di plasma di donatori sani.

«La nostra ipotesi iniziale era che, rimuovendo l’albumina insieme a Aβ e sostituendola periodicamente con l’albumina più recente, avremmo potuto rimuovere l’ Aβ dal liquido cerebrospinale e, infine, dal cervello» ha detto Pàez.

Il protocollo dello studio AMBAR
Lo studio AMBAR ha incluso 347 uomini e donne di età compresa tra 55 e 85 anni con probabile demenza di AD che sono stati arruolati in 41 siti in Spagna e negli Stati Uniti. A tutti è stata diagnosticata una lieve AD, come dimostrato da un punteggio di base Mini-Mental State Examination (MMSE) da 22 a 26, o AD moderata, con un punteggio MMSE di base da 18 a 21.

Gli investigatori hanno assegnato casualmente i partecipanti a quattro gruppi; uno ha ricevuto un placebo, e ciascuno degli altri tre bracci di trattamento ha ricevuto diverse dosi sostitutive di albumina e immunoglobulina per via endovenosa (IVIG). Durante la prima fase di studio di 6 settimane, i pazienti hanno ricevuto trattamenti settimanali fittizi (placebo) o di PE convenzionali da 2,5 a 3 litri di plasma, che Pàez ha definito la «fase di trattamento intensivo per rimuovere il più Aβ possibile».

A questo è seguita una fase di mantenimento di 12 mesi, che ha comportato lo scambio mensile di plasma a basso volume (700- 800 mL) o trattamenti fittizi.

Anche se il volume di plasma rimosso era lo stesso in tutti e tre i gruppi di trattamento attivi, la quantità di albumina e IVIG che è stato successivamente sostituita variava. In un gruppo, la stessa quantità di albumina e IVIG che erano rimosse venne sostituita; in un altro, la metà della quota rimossa è stato sostituita; e nel terzo, è stata sostituita solo l’albumina.

I ricercatori hanno raccolto campioni di liquido cerebrospinale (CSF) al basale e dopo ogni periodo di trattamento. Hanno valutato i biomarcatori Aβ40, Aβ42, tau totale (T-tau) e tau fosforilato (P-tau). I due outcome principali erano il passaggio dalla linea di base a 14 mesi  nei punteggi sulla scala Alzheimer’s Disease Cooperative Study-Activities of Daily Living (ADCS-ADL) e sulla scala Alzheimer’s Disease Assessment Scale–Cognitive Subscale (ADAS-Cog).

Riduzione della sintomatologia
I risultati hanno mostrato una riduzione della progressione dei sintomi nei pazienti trattati con PE per entrambi gli endpoint primari. L’ADCS-ADL ha mostrato un calo del 52% in meno nel gruppo trattato con PE rispetto al gruppo placebo (P – 0,03); l’ADAS-Cog ha mostrato un calo inferiore del 66% (P -06). Nel gruppo moderato, entrambi gli endpoint hanno mostrato un calo in meno del 61% (rispettivamente P – 002 e 0,05).

Non c’erano chiare differenze tra i tre gruppi di trattamento attivo, «suggerendo che ognuno di essi potrebbe essere preso in considerazione per ulteriori indagini» ha detto Pàez.
Le differenze nelle caratteristiche demografiche di base non sembrano avere avuto un’influenza sui risultati. In termini di ADAS-Cog, il trattamento PE è stato più del doppio efficace rispetto ad alcuni anticorpi monoclonali candidati che hanno come target l’Aβ, ha osservato Pàez.

Anche se l’approccio PE è relativamente invasivo, lo sono anche le terapie anticorpali monoclonali che sono infuse per via endovenosa attraverso una pompa, ha aggiunto.
Inoltre, un trattamento di mantenimento PE a basso volume richiede meno di 2 ore, che è alla pari con alcuni trattamenti anticorpali monoclonali, ha ribadito.

Superiorità rispetto al placebo anche negli esiti secondari
Per entrambi gli esiti primari, sono stati rilevati cambiamenti nei pazienti con AD moderato ma non lieve, probabilmente perché l’ADAS-Cog è stato progettato per i pazienti con sintomi più gravi e potrebbe non essere abbastanza sensibile per i pazienti con migliori prestazioni cognitive, ha specificato Pàez.

Tuttavia, la differenza tra AD lieve e moderata non ha ‘resistito’ nelle analisi post hoc che includevano caratteristiche aggiuntive di base, tra cui amiloide e lo stato APOE Ɛ4.
«Abbiamo osservato che sia i soggetti lievi che moderati hanno ottenuto risultati migliori rispetto al placebo anche nei due endpoint coprimari» ha detto Pàez. «Ciò ha suggerito che le differenze tra pazienti lievi e moderati non erano così evidenti».

I principali risultati secondari dello studio includevano punteggi sulle scale Clinical Dementia Rating Sum of Boxes (CDR-sb) e sulle scale Alzheimer’s Disease Cooperative Study–Clinical Global Impression of Change (ADCS-CGIC). I pazienti trattati hanno ottenuto un punteggio migliore rispetto al gruppo placebo sia sulle scale CDR-sb (71% in meno, P 0,002) che ADCS-CGIC (100% in meno, P < 0.0001).

Per i biomarcatori di AD nella popolazione moderata in studio, i livelli di CSF Aβ42 e proteina tau sono rimasti stabili nei pazienti trattati. Nel gruppo del placebo, l’Aβ42 è diminuito e la proteina tau è aumentata. Pàez ha spiegato che se l’amiloide nel cervello proviene dal CSF, questo processo può richiedere del tempo. I risultati suggeriscono che più di un meccanismo può essere coinvolto nell’approccio PE, come cambiamenti nello stato di ossidazione e mediatori infiammatori, notano gli investigatori.

Il profilo di sicurezza
Circa il 28% dei partecipanti ha abbandonato lo studio, un tasso simile a quello riportato negli studi di solanezumab e altri trattamenti in pazienti con AD, fanno notare i ricercatori.

«L’alta percentuale (72%) dei pazienti che hanno completato lo studio sostiene ulteriormente che questa procedura è fattibile in AD da lieve a moderata» scrivono gli investigatori.
Nel complesso, gli eventi avversi (AE) erano simili al profilo di sicurezza noto delle procedure PE per altre indicazioni. I due più comuni AE erano le reazioni locali del catetere e l’ipotensione. Quasi il 90% delle procedure di aferesi erano «tranquille», riferiscono i ricercatori.

Due pazienti (0,6%) sono morti durante lo studio, che è simile ai bassi tassi di mortalità riportati altrove, aggiungono. Tuttavia, i ricercatori sottolineano che, poiché molti pazienti con AD sono in condizioni di salute fragile, i trattamenti con scambio plasmatico devono essere intrapresi con cautela, a causa della loro natura invasiva.

Pàez ha osservato che una possibile limitazione di questo approccio di trattamento è la disponibilità di plasma. In futuro, questo potrebbe essere combinato con le terapie Alzheimer attuali e future, scrivono i ricercatori.

Attualmente stanno discutendo con l’American Society for Apheresis, che sviluppa linee guida per lo scambio plasmatico. Dopo ulteriori ricerche, gli investigatori sperano di ricevere alla fine l’approvazione della Food and Drug Administration statunitense con la sostituzione dell’albumina come trattamento per l’AD.