Schizofrenia: scoperto il ruolo dell’acido cinnabarinico


Scoperta da Neuromed una molecola di potenziale interesse nella patofisiologia della schizofrenia, uno dei più gravi disturbi psichiatrici

Schizofrenia: scoperto il ruolo dell'acido cinnabarinico

La schizofrenia è uno dei più gravi disturbi psichiatrici, e molte sono ancora le lacune nelle conoscenze sui meccanismi che ne sono alla base. Una ricerca del Dipartimento di Patologia Molecolare dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli (IS) ha ora individuato il ruolo di una particolare molecola, l’acido cinnabarinico, aprendo la strada a possibili interventi farmacologici innovativi contro questa patologia. Lo studio, svolto in collaborazione con l’Accademia Polacca delle Scienze, l’Università Sapienza di Roma e altri istituti italiani e stranieri, è stato pubblicato sulla rivista Schizophrenia Bulletin.

L’acido cinnabarinico è un prodotto del metabolismo del triptofano che si forma a seguito di una serie di reazioni chimiche complessivamente note come “via delle chinurenine”. Un collegamento tra molecole di questa via metabolica e alcuni disturbi psichiatrici, inclusa la schizofrenia, era già stato dimostrato in passato. I ricercatori Neuromed hanno ora scoperto, attraverso studi su tessuti autoptici umani, che nel tessuto cerebrale di persone affette da schizofrenia l’acido cinnabarinico presenta ridotti livelli d’espressione. Allo stesso tempo gli autori della ricerca hanno riportato come la somministrazione di acido cinnabarinico, in una serie di modelli animali comunemente impiegati per la validazione di farmaci antipsicotici, determini una chiara azione terapeutica.

“Abbiamo studiato – spiega il dottor Francesco Fazio, ricercatore del Dipartimento di Patologia Molecolare Neuromed, attualmente all’Albert Einstein College of Medicine di New York – campioni di tessuto autoptico cerebrale umano gentilmente concessi dal ‘Harvard Brain Tissue Resource Center’, sotto la direzione della professoressa Sabina Berretta. Grazie a metodiche analitiche estremamente sensibili abbiamo potuto determinare come, nei campioni di corteccia prefrontale dorso-laterale provenienti da pazienti schizofrenici, i livelli di acido cinnabarinico risultassero marcatamente ridotti rispetto a quelli provenienti da persone non affette dalla patologia. Questo ci induce a pensare che una ridotta formazione (o un’aumentata eliminazione) della molecola possa essere un fattore determinante nella patologia”.

Il passo successivo è stato quello di somministrare la molecola in animali sottoposti a protocolli farmacologici che riproducono aspetti della schizofrenia nell’uomo. “In questa fase – continua Fazio – è stato possibile dimostrare che dosi estremamente basse di acido cinnabarinico hanno un effetto antipsicotico sui topi, legato almeno in parte (non vanno esclusi meccanismi ulteriori) all’attivazione di specifici recettori presenti sulle cellule nervose, i recettori metabotropici per il glutammato mGlu4”.

“Sono diverse le prospettive aperte da questo studio – commenta il professor Ferdinando Nicoletti, Responsabile del Laboratorio di Neurofarmacologia del Neuromed e Professore Ordinario di Farmacologia dell’Università Sapienza di Roma – Da una parte possiamo pensare che la misurazione dei livelli di acido cinnabarinico nel sangue potrebbe aiutarci a diagnosticare la schizofrenia, e a farlo magari in tempi precoci rispetto al suo esordio, quindi in assenza di sintomi manifesti. Dall’altra, la somministrazione della molecola, a dosaggi molto bassi, potrebbe ridurre i sintomi psicotici nei pazienti. Dobbiamo anche sottolineare come l’acido cinnabarinico si sia dimostrato efficace in diversi modelli animali, ognuno rappresentante aspetti diversi della patologia. Questo lascia sperare che potrebbero essere alleviati non solo i sintomi positivi (tra cui deliri, allucinazioni, disorganizzazione del pensiero), già ben controllati dalle terapie farmacologiche esistenti, ma anche i sintomi negativi (spesso correlati ad episodi di suicidio) e cognitivi (tra cui, deficit di memoria e di attenzione). Naturalmente si tratta di una strada nuova, e molto lavoro c’è ancora da fare prima di pensare ad una concreta applicazione clinica di questa ricerca”.