Sindrome di Sly: speranza da terapia cellulare in utero


Terapia cellulare in utero possibile arma per combattere la sindrome di Sly secondo uno studio statunitense che ha dimostrato l’efficacia della somministrazione di staminali

Terapia cellulare in utero possibile arma per combattere la sindrome di Sly secondo uno studio statunitense che ha dimostrato l’efficacia della somministrazione di staminali

Se le terapie avanzate sono ormai sdoganate, con alcuni prodotti già sul mercato e numerosi altri in fase di studio, altrettanto non si può dire della terapia genica o cellulare prenatale, che timidamente inizia a muovere i primi passi. Proprio lo scorso 26 febbraio, un gruppo di ricercatori dell’ University of California San Francisco (UCSF), ha dimostrato, in modelli animali, che la somministrazione di cellule staminali in utero può essere una strategia per il trattamento della mucopolisaccaridosi di tipo VII (MPS7), nota anche come sindrome di Sly, che spesso può causare l’aborto. Sulla base di questi dati i ricercatori hanno chiesto alla Food and Drug Administration (FDA) il via libera per un trial clinico.

L’enzima mancante
La sindrome di Sly è una rara e grave patologia da accumulo lisosomiale, facente parte delle mucopolisaccaridosi, causata dalla mutazione del gene codificante per l’enzima β-glucuronidasi, presente nel cromosoma 7. Chi ne è affetto ha una carenza di tale enzima, che normalmente elabora grandi catene di molecole di zucchero (glicosaminoglicani – GAG) necessarie per il corretto funzionamento delle cellule. La patologia provoca disfunzione di più organi, incluso il cervello, e può essere associata a casi non diagnosticati di morte fetale, motivo per cui è difficile determinane l’incidenza. Al momento della nascita il danno d’organo potrebbe essere già grave e il feto potrebbe non sopravvivere affatto. Pertanto, una strategia terapeutica potenzialmente promettente dovrebbe agire nel periodo prenatale. Proprio in quest’ottica, il gruppo di ricerca della USCF – guidato da Tippi MacKenzie – ha valutato in modelli murini due approcci prenatali in utero: la terapia sostitutiva con l’enzima mancante e il trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Lo studio è stato pubblicato lo scorso 26 febbraio sulla prestigiosa rivista Science Translational Medicine.

La terapia enzimatica in utero
Al momento, chi sopravvive con la MPS7 viene trattato con il trapianto di cellule staminali ematopoietiche e iniezioni regolari dell’enzima β-glucuronidasi di cui le cellule sono carenti, che possono fornire alcuni benefici, ma non a livello cerebrale dove l’enzima, dopo la nascita, non riesce a entrare attraverso il flusso sanguigno per via della barriera emato-encefalica. In alcune malattie metaboliche correlate, i medici riescono a infondere l’enzima direttamente nel cervello per trattare gli aspetti neurologici. Un’altra soluzione però potrebbe essere quella di somministrarlo prima della nascita, direttamente in utero, quando la barriera emato-encefalica non è completamente sviluppata e potrebbe lasciarlo penetrare nel cervello. L’infusione della proteina in fase prenatale potrebbe, inoltre, evitare il grande problema della risposta immunitaria che si ha normalmente dopo la nascita, quando i pazienti possono sviluppare una risposta immunitaria all’enzima, che i loro corpi considerano “estraneo”. Il sistema immunitario fetale invece tende a considerare le nuove proteine come “amichevoli” senza respingerle.

Vantaggi e svantaggi
Gli esperimenti preclinici condotti su modelli murini di MPS7, hanno mostrato i vantaggi ipotizzati dai ricercatori, con un notevole miglioramento della sopravvivenza alla nascita dei topi trattati in utero con la somministrazione dell’enzima. I ricercatori, inoltre, hanno continuato a infondere l’enzima anche dopo la nascita, portando a una tolleranza immunitaria e a miglioramenti in più organi, tra cui il cervello e il fegato. Inoltre, nei test i ricercatori hanno notato un progresso significativo della forza nella presa dei topi con MPS7 – che è generalmente debole – che in alcuni casi si avvicinava a quella dei topi sani. Resta però il problema della durata dell’enzima nell’organismo, pari a circa due settimane, che perciò deve essere somministrato continuamento anche dopo la nascita, quando però la barriera emato-encefalica è completamente sviluppata e può costituire un ostacolo.

La terapia cellulare in utero
A questo punto, Tippi MacKenzie, membro dell’Eli e Edythe Broad Center for Regeneration Medicine and Stem Cell Research dell’UCSF, ha pensato che un’altra possibilità potesse essere quella di somministrare direttamente le cellule staminali ai feti. Le cellule staminali infatti hanno la capacità di differenziarsi in nuove cellule, sia nel cervello che nel resto del corpo, in grado di produrre l’enzima mancante. I ricercatori hanno quindi provato a trapiantare le cellule staminali ematopoietiche uterine di topi sani, in feti di topo portatori della mutazione genetica che causa la MPS7. Il principale obiettivo del gruppo di ricerca era capire se le cellule staminali trapiantate potessero arrivare nel cervello trasformandosi in microglia, ovvero le cellule immunitarie del sistema nervoso centrale che hanno origine dalle cellule staminali ematopoietiche. In un feto sano in via di sviluppo, una volta maturato, la microglia produce e immagazzina la β-glucuronidasi, oltre a regolare l’ambiente immunitario del cervello. “Volevamo testare questo trapianto prima della nascita – ha spiegato MacKenzie – sfruttando il fatto che nel feto le cellule staminali migrano nel cervello per diventare microglia”.

Sostituire le cellule difettose
La scoperta più importante è stata proprio quella di dimostrare che le cellule staminali possono penetrare nel cervello fetale durante il periodo di sviluppo prenatale e sostituire le cellule difettose. “Queste cellule diventano davvero microglia, quindi c’è un enorme vantaggio nel trapiantarle prima della nascita”, ha aggiunto MacKenzie. Come controprova i ricercatori hanno etichettato le cellule trapiantate con un marker fluorescente in modo da poterle facilmente identificare e verificarne il passaggio attraverso la barriera emato-encefalica fino al cervello. Inoltre, per confermare che le cellule trapiantate agissero come microglia funzionale, ne è stato sequenziato l’RNA prodotto, notando che corrispondeva alla corretta “firma” di produzione proteica (i trascrittomi) della microglia dei topi donatori. Infine, i ricercatori hanno anche verificato che le cellule staminali migrassero verso il fegato, i reni e altri organi e si differenziassero in cellule idonee alla produzione dell’enzima necessario in quegli organi.

La correzione crociata
Non solo le cellule staminali somministrate in utero si sono rivelate in grado di sostituire quelle difettose, ma anche di correggere quelle vicine tramite un processo detto di correzione crociata. In pratica una volta che le cellule staminali si erano innestate nel cervello e nel corpo, e si sono differenziate, sono state anche in grado di fornire la β-glucuronidasi alle cellule vicine e ripristinare la loro funzione. “La strategia ha consentito la correzione crociata delle cellule epatiche di Kupffer e ha migliorato il fenotipo in più tessuti”, ha affermato MacKenzie. “Abbiamo scoperto che anche se circola solo l’1-2% di cellule sane, è possibile migliorare drasticamente il decorso della malattia del fegato, per fare un esempio”. Le cellule trapiantate hanno così risolto una serie di complicanze associate alla MPS7 per la durata della vita degli animali.

La proposta di un trial clinico
Questi risultati aprono dunque la via per un approccio completamente nuovo per il trattamento di una serie di malattie metaboliche, anche se il lavoro da fare per ottimizzare il trattamento prenatale per gli esseri umani è ancora tanto. Un vantaggio potrebbe essere la somministrazione del trattamento con le stesse tecniche ora utilizzate per le trasfusioni di sangue fetale, che sono state eseguite per decenni negli ospedali degli Stati Uniti. Inoltre, come suggerito dagli autori del lavoro, l’approccio potrebbe essere esteso a molti altre patologie metaboliche ereditari che derivano da singoli geni difettosi. In base a queste buone premesse, è stato presentata alla FDA statunitense la richiesta di avvio di uno studio clinico di terapia sostitutiva enzimatica su 10 pazienti con MPS7 e disturbi metabolici correlati.

Presente e futuro
In attesa di ricevere una risposta MacKenzie resta ottimista perché consapevole che gli studi del suo team stanno contribuendo ad ampliare il campo delle terapie prenatali. Nel 2018 la ricercatrice ha, infatti, messo a punto una tecnica sperimentale simile, basata sul trapianto di cellule staminali ematopoietiche delle madri nei feti, per il trattamento della alfa talassemia, una malattia ereditaria che causa una forma molto grave di anemia. Nel frattempo, in Germania, Regno Unito, Olanda e Svezia è in partenza una sperimentazione clinica per trattare l’osteogenesi imperfetta – una malattia congenita in cui le ossa non si formano in modo corretto – con la somministrazione di cellule staminali.

La terapia genica in utero
Oltre alla terapia cellulare, i ricercatori si stanno orientando anche verso quella genica che ha il potenziale di trarre vantaggio dalle normali proprietà di sviluppo del feto e superare alcune delle attuali limitazioni della terapia genica postnatale. L’idea a sostegno della terapie genica in utero, si basa su alcune considerazioni supportate da un numero di studi importante su modelli animali. Come il fatto che, come già accennato, il sistema immunitario del feto non attacchi le cellule estranee somministrate come terapia. E il fatto che in questa fase di sviluppo siano presenti cellule staminali/progenitrici di più organi, altamente proliferative e accessibili, e che possono essere trattate malattie in cui la fase irreversibile inizia prima della nascita. Inoltre, dato non da sottovalutare è che, essendo più piccolo, il feto necessita di un dosaggio più basso della terapia.

Le terapie avanzate in utero si stanno rivelando un ambito di ricerca molto innovativo e dalle grandi potenzialità, visto che il concetto di base è colpire le patologie in maniera specifica e in fase assolutamente precoce. Grazie all’amniocentesi e ai test prenatali non invasivi, eseguibili su prelievo di sangue, oggi si possono individuare con largo anticipo una serie di gravi malattie genetiche per cui queste terapie potrebbero rappresentare una nuova frontiera della medicina. Il lavoro da portare avanti, da parte della comunità scientifica, è però ancora molto e bisogna prendere in considerazione tutta una serie di questioni etiche e di sicurezza, dovute anche al fatto che in questo caso non si ha un unico paziente bensì due: il feto e la madre.