Infarto miocardio: nuovo studio su mortalità giovani


Infarto del miocardio di tipo 2, anche i più giovani hanno un maggiore rischio di mortalità a lungo termine secondo un nuovo studio pubblicato su JACC

Infarto del miocardio di tipo 2, anche i più giovani hanno un maggiore rischio di mortalità a lungo termine secondo un nuovo studio pubblicato su JACC

Alti tassi di mortalità a breve termine a seguito di infarto miocardico (MI) di tipo 2 (T2MI) sono stati attribuiti in passato ai pazienti più anziani e gravemente malati in cui questi tipi di MI sono comuni, ma anche i pazienti più giovani con T2MI devono affrontare un rischio maggiore di decesso a lungo termine. È quanto si evince da uno studio pubblicato sul “Journal of the American College of Cardiology “ (JACC).

In effetti, questo rapporto — lo studio più lungo condotto fino ad oggi per esaminare i rischi di T2MI negli adulti più giovani — indica che sia la mortalità per tutte le cause che quella cardiovascolare sono più elevate per T2MI rispetto a MI di tipo 1 (T1MI).

Le attuali definizioni di T1MI e T2MI

Il T1MI, secondo la “Fourth Universal Definition of Myocardial Infarction” (UDMI), si riferisce a pazienti con ischemia e aumento degli enzimi cardiaci che si presume derivino da un evento aterosclerotico spontaneo. Nel T2MI, al contrario, i pazienti hanno evidenza di biomarker di danno miocardico e segni di ischemia miocardica, ma la causa è uno squilibrio tra l’apporto e la domanda di ossigeno non correlato a un evento aterosclerotico acuto.

Una terza categoria, la lesione del miocardio, è definita dal livello di troponina stabile e dal “mismatch” tra offerta e domanda di ossigeno, ma senza alcuna ischemia miocardica e nessun fattore precipitante diretto.

Ciò che i medici in genere ritengono e la realtà dei fatti
Molti clinici in genere pensano che l’MI di tipo 2 sia una condizione che sperimentano le persone anziane per il fatto che questo si presenta un mismatch tra domanda e offerta rispetto alla fornitura di ossigeno da parte dei vasi coronarici, osservano gli autori, guidati da Ron Blankstein, del Brigham and Women’s Hospital di Boston.

«E avere tale discrepanza tra domanda e offerta significa fondamentalmente che si ha una maggiore domanda di ossigeno, il che di solito indica una malattia medica acuta, che tende a essere più comune negli anziani» aggiungono.

Uno degli aspetti interessanti dello studio, secondo i ricercatori, risiede nel fatto che – considerando tutti i pazienti della coorte studiata – gli MI di tipo 2 si sono verificati in quasi un terzo dei pazienti, quindi non sono rari e, in realtà, si presentano nei giovani pazienti con MI: un aspetto che probabilmente in futuro i cardiologi riconosceranno sempre di più.

«Nella nostra popolazione di studio, combinando MI di tipo 2 e lesioni miocardiche, si ha un rapporto 50/50 con l’MI di tipo 1» specificano gli autori. «Nella pratica clinica, gli MI di tipo 2 e le lesioni miocardiche sono probabilmente più comuni del tipo 1» aggiungono, osservando che altri centri stanno vedendo trend simili. In passato si vedevano questi giovani pazienti con un aumento della troponina e si pensava che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi, sottolineano Blankstein e colleghi.

Invece, sottolineano, il messaggio principale che emerge è il seguente: i pazienti con T2MI hanno in realtà una mortalità molto elevata ed è comprensibile – questi pazienti hanno sanguinamenti gastrointestinali, shock settico, etc. – ma hanno anche una mortalità cardiovascolare molto elevata a 10 anni.

Il rischio si evidenzia a 10 anni di distanza dall’evento acuto
Per il presente studio, Blankstein e colleghi hanno attinto ai dati del registro YOUNG-MI relativo a soggetti di età pari o inferiore a 50 anni al momento del loro ricovero per MI in uno di due grandi centri medici accademici (il Brigham and Women’s Hospital di Boston e la Yale University School of Medicine di New Haven) per un periodo di 17 anni.

Tutti i 3.829 pazienti non avevano una storia nota di coronaropatia (CAD) al momento del ricovero in ospedale hanno ricevuto una diagnosi di T1MI (55%), T2MI (32%) o lesione miocardica (13%). I pazienti con T2MI avevano maggiori probabilità di essere più giovani rispetto ai pazienti con T1MI e più probabilità di essere donne.

Nel corso di un follow-up mediano di 10 anni, il tasso di mortalità era più basso per i pazienti inizialmente ricoverati in ospedale con T1MI (12%), seguito da T2MI (34,2%) e più alto per i pazienti a cui era stata inizialmente diagnosticata una lesione miocardica (45,6%).

In un modello corretto per una serie di fattori demografici al basale, comorbilità, terapie e interventi prescritti, i pazienti T2MI avevano un rischio significativamente più alto di morire nel follow-up a 10 anni rispetto ai pazienti T1MI (HR 1,8; IC al 95% 1,2-2,7) e rispetto ai pazienti con diagnosi iniziale di danno miocardico (HR 2,6; IC al 95% 1,7-4,0).

Ancora più eclatante, secondo gli autori, è stato l’aumento del rischio di morte cardiovascolare tra questi pazienti, fatto atteso per T1MI, ma non per il tipo 2. Ciò si è dimostrato vero nelle analisi non aggiustate e in modo ancora più pronunciato dopo la correzione per le caratteristiche di base (HR 1,8 e IC al 95% 1,2-2,7 per T2MI; HR 2,6 e IC al 95% 1,17-4,0 per lesioni miocardiche).

Da notare, rispetto ai pazienti che avevano T1MI, i pazienti con T2MI avevano significativamente meno probabilità di sottoporsi a test invasivi e meno probabilità di essere dimessi in trattamento con farmaci cardiovascolari tra cui aspirina, inibitori P2Y12, statine, beta-bloccanti, ACE-inibitori e/o bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB).

«La scoperta importante scoperta è che anche i pazienti T2MI hanno una più alta mortalità cardiovascolare, suggerendo che un aumentato rischio di malattie cardiovascolari (CVD) è qualcosa che si spera possa essere modificato con terapie preventive secondarie più aggressive» sostengono Blankstein e colleghi.

«In genere, con pazienti con T2MI i cardiologi sono troppo preoccupati per il processo medico primario in corso, che si tratti di un’infezione, ustioni o traumi, quindi il trattamento preventivo per future CVD non rientra ‘nei radar’ dei medici curanti» sottolineano.

Correlazione non spiegata. Ipotizzato un nesso nella progressione aterosclerotica
«Questo registro è costituito da un gruppo molto eterogeneo» spiegano gli autori. «Abbiamo in qualche modo raggruppato questi pazienti nella categoria T2MI, ma la fisiologia e i processi sottostanti sono molto diversi. In effetti la prognosi di questi pazienti e la loro mortalità cardiovascolare e per tutte le cause associate variano molto da ciò che guida il loro T2MI. Qui non può funzionare un’unica misura di approccio».

Ma che cosa potrebbe aver aumentato il rischio di morte cardiovascolare nei pazienti T2MI che successivamente hanno incontrato tale sorte? I dati attuali non offrono alcuna risposta, secondo Blankstein e colleghi.

«Si può ipotizzare che, in generale, si tratta di pazienti affetti da aterosclerosi. Dal momento che questi sono tutti giovani individui, se hanno l’aterosclerosi è più probabile che progrediscano nel tempo. Inoltre, sono pazienti che hanno maggiori probabilità di sviluppare rottura della placca e trombosi» suggeriscono.

Necessità di una prevenzione secondaria più aggressiva
Pertanto, un miglioramento in termini di riduzione della pressione arteriosa, gestione del diabete, controllo del peso corporeo, riduzione del colesterolo e farmaci di prevenzione potenzialmente secondaria raccomandati nel T1MI possono rivelarsi utili, ritengono gli autori. Studi come MINOCA-BAT, per esempio, stanno attualmente esplorando il potenziale beneficio dei beta-bloccanti e degli ACE-inibitori/ARB nei pazienti con MI con arterie coronarie non ostruttive.

In un editoriale di accompagnamento, Kristian Thygesen, dell’Ospedale Universitario di Aarhus (Danimarca) e Allan Jaffe, della Mayo Clinic di Rochester (Minnesota), menzionano un altro studio, noto come ACT-2 (Appropriateness of Coronary Investigation in Myocardial Injury and Type 2 Myocardial Infarction), che sta esaminando se l’utilizzo dell’angiografia invasiva precoce o dell’angiografia TC per guidare la gestione, rispetto alle cure abituali, può influire sulla sopravvivenza e sul rapporto costo-efficacia.

«Potenzialmente in alcuni di questi pazienti potremmo imparare di più se si eseguisse un po’ di imaging per cercare l’aterosclerosi sottostante, cosa che si può fare in modo non invasivo con la TC o la risonanza magnetica» sostengono Blankstein e colleghi. «Caratterizzare ulteriormente l’onere della malattia in questi pazienti potrebbe permetterci di capire meglio perché sono ad aumentato rischio».

In sintesi, «i giovani pazienti che manifestano un T2MI hanno una mortalità per tutte le cause e cardiovascolare a lungo termine più elevata rispetto a quelli che manifestano un T1MI, con quasi la metà dei pazienti con danno miocardico e oltre un terzo dei pazienti con morte da T2MI entro 10 anni».

«Questi risultati sottolineano la necessità di fornire una prevenzione secondaria più aggressiva per i pazienti con T2Mi e lesioni al miocardio» concludono gli autori.