Tumore ovarico: olaparib batte la chemioterapia


Tumore dell’ovaio sensibile o parzialmente sensibile al platino: olaparib meglio della chemioterapia nelle donne altamente pretrattate

Tumore dell'ovaio sensibile o parzialmente sensibile al platino: olaparib meglio della chemioterapia nelle donne altamente pretrattate

Nelle donne che hanno una recidiva di tumore ovarico sensibile o parzialmente sensibile al platino, BRCA-mutate e altamente pretrattate, il PARP-inibitore olaparib offre un beneficio rispetto alla chemioterapia non a base di platino. A dimostrarlo sono i risultati dello studio di fase 3 SOLO3, appena pubblicati sul Journal of Clinical Oncology.

In questa popolazione, infatti, il trattamento con olaparib ha migliorato in modo statisticamente significativo e clinicamente rilevante sia il tasso di risposta obiettiva (ORR) sia la sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto alla chemioterapia con un singolo agente scelta dallo sperimentatore. Nel gruppo trattato con olaparib si sono osservati circa un 20% in più di risposte al trattamento e una riduzione del 38% del rischio di progressione della malattia o decesso.

Dati solidi sull’attività e l’efficacia di olaparib
«Lo studio SOLO3 ci dà una misura precisa, con dati solidi, di fase 3, dell’efficacia di olaparib da solo come terapia, non come mantenimento, nelle pazienti con recidiva platino-sensibile di carcinoma ovarico, portatrici di mutazioni di BRCA» ha spiegato ai nostri microfoni Nicoletta Colombo, Direttore della Divisione di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.

«Questo trial è importante ed era atteso perché olaparib, come pure gli altri PARP-inibitori, era stato approvato negli Usa sulla base di studi di fase 2, non randomizzati; serviva, quindi, uno studio di conferma di fase 3, su un numero più ampio di pazienti» ha aggiunto Colombo, che è una delle autrici principali di SOLO3 assieme a Giovanni Scambia, che è il principal investigator, Professore Ordinario di Ginecologia e Ostetricia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore scientifico della Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” IRRCS di Roma.

Valida alternativa alla chemioterapia
«Il disegno del trial è stato criticato perché le pazienti arruolate avevano una recidiva platino-sensibile, ma, nonostante ciò, nel braccio di controllo sono state trattate con una chemioterapia non a base di platino» ha spiegato la professoressa. «È vero che, in teoria, una donna con recidiva platino-sensibile dovrebbe essere trattata con il platino; le nostre pazienti, tuttavia, erano formalmente platino-sensibili, ma in realtà una quota consistente, oltre il 50%, era già stata trattata con tre, quattro linee a base di platino o anche più, una situazione che autorizza, al momento della recidiva, a ricorrere a un regime chemioterapico diverso; inoltre, molte di esse, più del 60%, erano in realtà solo parzialmente sensibili al platino, perché avevano recidivato in un lasso di tempo comunque breve, tra i 6 e i 12 mesi, dall’ultima linea di terapia effettuata, e avevano quindi una sensibilità al platino ridotta».

«Nonostante questa critica, comunque, lo studio dimostra che olaparib in monoterapia è estremamente efficace come terapia per la paziente con recidiva platino-sensibile di un carcinoma ovarico, BRCA-mutata; pertanto, se un domani venisse approvato in Europa in questo setting, potrebbe rappresentare una alternativa molto valida alla chemioterapia» ha affermato Colombo.

Lo studio SOLO3
SOLO3 è uno studio multicentrico internazionale, randomizzato e controllato, in aperto, che ha coinvolto 266 donne con tumore ovarico recidivato già sottoposte ad almeno due linee di chemioterapia a base di platino e portatrici di una mutazione germinale di BRCA1/2. Tutte le pazienti erano sensibili al platino (cioè, progredite più di 12 mesi dopo l’ultimo trattamento a base di platino) o parzialmente sensibili al platino (progredite entro 6-12 mesi dall’ultimo trattamento a base di platino).

Dopo l’arruolamento, le partecipanti sono state assegnate in rapporto 2:1 al trattamento con olaparib (300 mg due volte al giorno) o una monochemioterapia scelta del medico, non contenente platino (doxorubicina liposomiale peghilata o PLD, paclitaxel, gemcitabina o topotecan).

L’endpoint primario era l’ORR, determinato da revisori indipendenti in cieco, mentre fra gli endpoint secondari figuravano la PFS e la sopravvivenza globale (OS).

Le caratteristiche di base delle pazienti erano generalmente ben bilanciate nei due bracci di trattamento. Circa la metà (51,7% nel braccio trattato con olaparib e 53,4% in quello assegnato alla chemioterapia) aveva fatto in precedenza due linee di chemio, circa i due terzi erano parzialmente platino-sensibili e la chemioterapia impiegato più comunemente è risultato la PLD.

Più risposte con olaparib, anche nei vari sottogruppi

Su 223 pazienti con malattia misurabile, l’ORR è risultato del 72,2% nel gruppo trattato con olaparib, «un tasso di risposta molto alto e di tutto rilievo per un trattamento non chemioterapico» ha sottolineato Colombo, e 51,4% in quello sottoposto alla chemioterapia (odds ratio. OR, 2,53; P = 0,002). In più, se si considera solo la popolazione trattata in precedenza con solo due linee di terapia a base di platino, l’ORR sale addirittura all’84,6% con olaparib contro 61,5% con la chemio (OR 3,44). «È chiaro, quindi, che la paziente meno pretrattata risponde di più al PARP-inibitore» ha aggiunto l’oncologa.

La superiorità di olaparib rispetto alla chemio si è mantenuta anche in altri sottogruppi di pazienti, compreso quello delle pazienti trattate in precedenza con tre o più linee di chemioterapia (ORR: 58,9% contro 39,4%; OR 2,21).

Inoltre, il beneficio del PARP-inibitore rispetto alla chemio si è osservato indipendentemente dall’età (maggiore o minore di 65 anni), dal performance status ECOG (0 oppure 1-2) e dal fatto che le pazienti fossero state trattate o meno con bevacizumab in precedenza.

Progressione e decesso ritardati in modo significativo da olaparib
Nel campione studiato, la PFS mediana è risultata significativamente migliore nel braccio trattato con il PARP-inibitore rispetto al braccio di confronto: 13,4 mesi contro 9,2 mesi (HR 0,62; P = 0,013), secondo la valutazione dei revisori indipendenti. Nel sottogruppo delle pazienti con malattia misurabile, l’HR per la PFS è risultato pari a 0,69.
Olaparib ha anche prolungato rispetto alla chemioterapia il tempo intercorso fra la randomizzazione e la prima terapia successiva o il decesso (TFST) e quello intercorso fra la randomizzazione e l’interruzione del trattamento o il decesso (TDT): rispettivamente 15,1 mesi contro 10,2 mesi (HR 0,48; P < 0,001) e 13,3 mesi contro 5,1 mesi (HR 0,17; P < 0,001).

I dati sull’OS, invece, erano ancora immaturi al momento della pubblicazione dei dati.

Profilo di sicurezza di olaparib confermato
Sul fronte della sicurezza e tollerabilità non ci sono state sorprese e olaparib ha confermato il suo profilo favorevole sotto questo punto di vista.
Gli eventi avversi più comuni nelle pazienti trattate con il PARP-inibitore sono stati nausea, stanchezza/astenia, anemia, vomito e diarrea, mentre quelli più frequenti associati alla chemioterapia sono stati stanchezza/astenia, eritrodisestesia palmo-plantare, nausea, neutropenia e anemia.

Eventi avversi gravi si sono manifestati nel 23,6% delle pazienti del gruppo olaparib e nel 18,4% di quelle trattate con la chemio; rispettivamente quattro e tre donne hanno sviluppato una sindrome mielodisplastica o una leucemia mieloide acuta e nel braccio trattato con il PARP-inibitore tre pazienti hanno sviluppato nuovi tumori maligni primari.

Inoltre, si sono registrati quattro eventi avversi fatali nel braccio assegnato a olaparib (sindrome mielodisplastica, scompenso cardiopolmonare, sepsi, leucemia mieloide acuta ed emorragia subaracnoidea) e un evento avverso fatale in quello sottoposto alla chemioterapia (trombosi mesenterica).

Scenario in evoluzione e spostamento verso la prima linea
I risultati dello studio SOLO3 sono rilevanti per l’attuale pratica clinica, ha osservato Colombo, ma in futuro potrebbero diventare obsoleti, in quanto lo scenario terapeutico si sta evolvendo rapidamente e si dovrà rimettere tutto in discussione.

“Alla luce dei dati degli ultimi studi, in particolare gli studi PAOLA-1 e PRIMA presentati all’ultimo congresso ESMO, i PARP-inibitori si stanno spostando verso la prima linea, non solo nelle pazienti BRCA-mutate, ma anche in quelle senza mutazioni di BRCA, e gli esperti sono concordi nel ritenere che prima li si usa e meglio è, perché il vantaggio che si ottiene in prima linea è nettamente maggiore rispetto quello ottenuto in seconda linea» ha detto l’oncologa.

«Per qualche anno ancora vedremo pazienti che non sono state trattate con il PARP-inibitore in prima linea, ma arriverà il momento in cui tutte avranno ricevuto questo tipo di farmaco fin dall’inizio; a questo punto, bisognerà capire se, dopo aver utilizzato il PARP-inibitore come prima terapia, lo si potrà impiegare di nuovo anche in seconda linea, al momento della recidiva; non lo sappiamo ancora. Probabilmente, se vorremo riutilizzarlo anche dopo la prima linea, dovremo combinarlo con qualche altro farmaco e da questo punto di vista sono allo studio diverse combinazioni promettenti» ha aggiunto Colombo.

Dove sta andando la ricerca sui PARP-inibitori?
Alla luce del probabile arrivo dei PARP-inibitori nel setting della terapia di prima linea, bisognerà anche raffinare la selezione delle pazienti, ha spiegato l’autrice, per cui si sta lavorando attivamente per capire quale sia il test migliore per identificare le donne che possono beneficiare di questi agenti anche se non portatrici di mutazioni di BRCA.

«Il risvolto clinico è immediato, perché gli ultimi studi dimostrano che funzionano in tutte le pazienti, BRCA-mutate e non, anche se con un gradiente di efficacia, per cui c’è bisogno di un test, che non può essere commerciale, e si sta cercando di sviluppare un test accademico riproducibile e utilizzabile su larga scala, che consenta di individuare le donne sopra citate» ha detto la professoressa.

Infine, ha concluso Colombo, bisognerà capire perché alcune pazienti non rispondono ai PARP-inibitori, perché alcune recidivano durante la terapia con questi farmaci, quali sono i possibili meccanismi di resistenza e come superarli.