Diabete tipo 2: inibitori SGLT2 a chi ne ha meno bisogno


Diabete di tipo 2: i nuovi farmaci inibitori SGLT2 prescritti a chi ne ha meno bisogno secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Diabetes Technology and Therapeutics

Diabete di tipo 2: i nuovi farmaci inibitori SGLT2 prescritti a chi ne ha meno bisogno secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Diabetes Technology and Therapeutics

Secondo quanto emerso da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Diabetes Technology and Therapeutics, esiste una notevole discordanza tra la raccomandazione d’uso dei farmaci SGLT2 inibitori sulla base delle evidenze e delle indicazioni delle linee guida e il loro effettivo impiego nella pratica clinica.

Il team di ricerca guidato da Rozalina McCoy del Department of Medicine presso la Mayo Clinic a Rochester, in Minnesota, ha analizzato il periodo dopo l’approvazione da parte della Fda degli antidiabetici canagliflozin (marzo 2013), dapagliflozin (gennaio 2014) e empagliflozin (agosto 2014), quando le linee guida ne raccomandavano l’uso come terapia di seconda linea dopo la metformina, in particolare per i pazienti a rischio di ipoglicemia.

Differenze a livello di prescrizione
L’obiettivo dei ricercatori era valutare a quali pazienti venivano prescritti questi farmaci prima dei risultati dei nuovi studi che ne hanno dimostrato la capacità di fornire anche una protezione renale e cardiovascolare.

«All’inizio era evidente che gli inibitori SGLT2 non sono associati a un aumento di peso o dell’ipoglicemia, ma che invece possono ridurre la pressione sanguigna e il peso corporeo, rendendoli così una opzione di trattamento particolarmente interessante per i pazienti sovrappeso o obesi, con insufficienza cardiaca o ipertensione, a rischio di ipoglicemia e anziani» hanno riportato gli autori.

Eppure, paradossalmente, in questo studio è emerso che i pazienti con malattie cardiovascolari, insufficienza cardiaca, ipertensione, malattie renali croniche e quelli a rischio di ipoglicemia avevano meno probabilità di ricevere un inibitore SGLT2 rispetto ad altri pazienti. Inoltre, i soggetti neri, di sesso femminile, di età avanzata o che erano coperti dall’assicurazione Medicare Advantage (un tipo di piano sanitario che fornisce copertura all’interno della Parte C di Medicare negli Stati Uniti, che paga per l’assistenza gestita sulla base di una tariffa mensile per iscritto, piuttosto che sulla base della fatturazione di una tariffa per ciascun servizio medico fornito) avevano meno probabilità di ricevere questi nuovi farmaci rispetto ai pazienti bianchi, più giovani, maschi o dotati di un’assicurazione privata.

McCoy ha ipotizzato che i medici potrebbero essere riluttanti a prescrivere un nuovo farmaco se non hanno ancora esperienza nel suo uso per trattare pazienti fragili che hanno molte comorbidità. «Penso che sia molto importante essere cauti con i nostri pazienti fragili ma, allo stesso tempo, non vogliamo privarli del trattamento clinicamente più valido» ha detto. «I medici devono usare il miglior giudizio clinico e pensare da quali farmaci ogni paziente trarrà il maggior beneficio».

Durante la discussione dello studio al recente congresso della European Association for the Study of DiabetesMelanie Davies della University of Leicester in UK, ha dichiarato: «La sfida che dobbiamo affrontare è che gli inibitori SGLT2 sono attualmente sotto prescritti e, quando lo sono, vengono dati ai pazienti che probabilmente non ne riceveranno i maggiori benefici. Dobbiamo colmare questo grande gap tra la realtà prescrittiva e dove dovremmo essere sulla base di quanto suggeriscono le evidenze. Ai pazienti che avevano avuto un precedente infarto del miocardio, un’insufficienza cardiaca o la malattia renale cronica -ha osservato Davies riferendosi ai pazienti nello studio-  era ancora meno probabile che venissero prescritti questi nuovi agenti».

Una analisi dei primi utilizzzatori
Il team di ricerca ha identificato oltre 1 milione di adulti con diabete di tipo 1 o di tipo 2 che avevano un’assicurazione sanitaria privata o il piano Medicare Advantage e avevano ricevuto almeno una prescrizione per almeno un farmaco ipoglicemizzante tra gennaio 2013 e dicembre 2016. Di questi, 75.500 pazienti (7,2%) hanno avuto una prima prescrizione per un inibitore SGLT2 (canagliflozin, dapagliflozin, empagliflozin), con una netta predominanza di canagliflozin (70% dei soggetti).

Durante il periodo preso in esame, gli inibitori SGLT2 sono stati raccomandati nel maggio 2013 come agenti di terza linea da AACE/ACE, nel 2014-2015 come agenti di seconda linea da varie organizzazioni e nel gennaio 2016 in base agli esiti del trial EMPA-REG. Il loro uso è stato raccomandato per i pazienti con insufficienza cardiaca e malattie cardiovascolari.

I ricercatori hanno scoperto che il 2,3% dei pazienti a cui erano stati prescritti inibitori SGLT2 nel 2014 aveva il diabete di tipo 1, nonostante si trattasse di un uso off-label. La percentuale è scesa all’1,2% nel 2016, parallelamente alla crescente consapevolezza dei maggiori rischi di chetoacidosi con l’uso di questi agenti nei pazienti con diabete di tipo 1 in trattamento con insulina.

Prescritti ai soggetti con meno comorbidità
Nel periodo di studio, la maggior parte degli SGLT2 inibitori è stata prescritti da medici di famiglia (32%), specialisti in medicina interna (24%) ed endocrinologi (23%).

Nonostante le evidenze a sostegno dell’uso preferenziale di questa classe di farmaci nei pazienti con determinate comorbidità, queste non si sono però tradotte in un maggior impiego nella pratica clinica, hanno scritto gli autori. I pazienti con diabete e precedente infarto miocardico, insufficienza cardiaca, malattie renali o grave ipoglicemia avevano rispettivamente il 6%, il 7%, il 20% e il 4% in meno di prescrizioni per questi farmaci (p<0,001 per tutti).

C’erano anche differenze prescrittive in relazione ai dati demografici e di copertura assicurativa. Rispetto ai pazienti diabetici tra i 18 e i 44 anni, quelli di età pari o superiore a 75 anni avevano il 43% in meno di probabilità di ricevere un inibitore SGLT2 (p<0,001), come anche i pazienti con copertura Medicare Advantage, con una probabilità del 36% inferiore a quelli dotati di un’assicurazione privata.

I soggetti che avevano ricevuto gli inibitori SGLT2 avevano anche maggiori probabilità di essere maschi piuttosto che femmine (49% vs 45%), e i pazienti neri il 7% in meno di probabilità rispetto ai bianchi.

«I pazienti con infarto del miocardio, insufficienza cardiaca e precedente ipoglicemia avevano meno probabilità di usare inibitori SGLT2 nonostante le evidenze a sostegno del loro uso preferenziale in questi soggetti» hanno ribadito gli autori. «Questo tipo di terapia è stato avviato il ​​più delle volte in pazienti a rischio più basso (giovani, con meno comorbidità) e privi delle condizioni di salute che ne potrebbero trarre il maggior beneficio».

È tuttavia emerso che la percentuale di pazienti di età pari o superiore a 65 anni che avevano ricevuto un inibitore SGLT2 era aumentata dal 12% al 28%, così come la percentuale di quanti avevano un’assicurazione Medicare Advantage, passata dal 14% al 32% (p<0,001 per entrambi).

Informare meglio i medici
Secondo gli autori, i medici di famiglia in particolare potrebbero inizialmente non essere a conoscenza degli specifici benefici degli inibitori SGLT2, quindi potrebbero aver prescritto questi farmaci nuovi e più costosi ai pazienti più giovani e a quelli con meno comorbidità per i quali ritenevano giustificato un approccio terapeutico più intenso. Oppure i soggetti più giovani potrebbero anche essere stati più propensi a chiedere le nuove terapie come conseguenza della pubblicità.

Inoltre, anche se presenti nei formulari, questi agenti potrebbero essere risultati troppo costosi per chi aveva una copertura Medicare Advantage e non poteva quindi beneficiare degli stessi vantaggi delle persone dotate di una assicurazione privata.

«L’educazione del paziente e del medico in merito agli approcci personalizzati per la gestione del diabete e il supporto del piano sanitario per queste strategie terapeutiche basate sull’evidenza, potrebbero aiutare a migliorare l’accesso alle nuove terapie antidiabetiche e migliorare gli outcome di salute in chi è affetto da questa malattia», hanno concluso gli autori.