Tumori neuroendocrini: per diagnosi corretta servono fino a 7 anni


Tumori neuroendocrini: fino a 7 anni di ritardo per una diagnosi corretta. In Italia, ogni 12 mesi, sono stimati circa 2.700 casi

Tumori neuroendocrini: fino a 7 anni di ritardo per una diagnosi corretta. In Italia, ogni 12 mesi, sono stimati circa 2.700 casi

Sono rari e “silenziosi”, perché solo nel 20% dei casi mostrano sintomi specifici. Le conseguenze possono essere gravi, perché per due terzi dei pazienti colpiti dai tumori neuroendocrini (NET, Neuro-endocrine Tumors) i ritardi nella diagnosi arrivano fino a 7 anni. In Italia, ogni 12 mesi, sono stimati circa 2.700 casi di queste neoplasie, classificate come rare perché interessano meno di 6 persone ogni 100mila abitanti. Il nostro Paese è al vertice in Europa per numero di centri certificati dalla Società Europea dei tumori neuroendocrini (ENETS, European Neuroendocrine Tumor Society): sono 8 e uno dei criteri indispensabili per ottenere il riconoscimento è la soglia minima di casi da trattare ogni anno, pari a 80. A queste patologie eterogenee e difficili da individuare e gestire è dedicato un media tutorial oggi a Milano.

“I tumori neuroendocrini possono insorgere in numerosi organi: nel 60% dei casi, si sviluppano a livello del tratto gastro-entero-pancreatico, dove la componente cellulare neuroendocrina è più diffusa, interessando l’intero tratto dall’esofago al retto, incluso il pancreas – spiega il prof. Massimo Falconi, Presidente Itanet (Associazione Italiana per i Tumori Neuroendocrini), Direttore del Centro del Pancreas dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e docente ordinario Università Vita-Salute di Milano -. La seconda sede più frequente è rappresentata dal tratto broncopolmonare (25%). Il principale problema del paziente colpito da una neoplasia rara è ‘dove andare’, cioè a quale istituzione oncologica riferirsi. Una corretta diagnosi e una buona decisione clinica iniziale di tipo multidisciplinare sono fattori cruciali. Non raramente, l’intervento chirurgico iniziale non è programmato su una diagnosi preoperatoria e deve poi essere ripetuto. Per affrontare in modo corretto queste patologie, è richiesta una competenza multispecialistica che include l’oncologo medico, il chirurgo, l’endocrinologo, il gastroenterologo, il medico nucleare, il radiologo, il patologo e il radiologo interventista. Solo in questo modo è possibile garantire al paziente precisione nella diagnosi e accesso al miglior percorso di cura”.

“Le forme funzionanti manifestano segni specifici, ma rappresentano solo il 20% dei casi – afferma il dott. Carlo Carnaghi, Responsabile Unità di Oncologia Ospedale Provinciale di Bolzano -. Sono caratterizzate da un’eccessiva secrezione di ormoni o di altre sostanze attive che, prodotte in eccesso, esaltano la loro funzione. Ad esempio, i pazienti colpiti da insulinoma, che secerne una quantità inappropriata di insulina, presentano crisi ipoglicemiche e svenimenti soprattutto a digiuno. Vi sono poi NET che producono gastrina con ulcere recidivanti. La sindrome da carcinoide è la più frequente e rappresenta più del 40% di tutte le sindromi delle forme funzionanti. È associata a eccessiva secrezione di serotonina da parte delle cellule tumorali, con diarrea, vampate di calore al volto e al collo, broncospasmo e scompenso cardiaco. Ulteriori sintomi possono essere iperidrosi, perdita di peso e comparsa di lesioni cutanee simili a quelle associate alla pellagra. Circa l’80% dei casi è però costituito dalle forme non funzionanti o non secernenti, che non esprimono ormoni in grado di determinare sintomi specifici”.
Per questo, solo quando la massa tumorale raggiunge dimensioni significative o compromette la funzionalità di specifici organi, la malattia diventa sintomatica. I NET non funzionanti vengono spesso individuati in modo casuale nel corso di accertamenti condotti per altre cause e tardivamente. Infatti circa il 60% dei tumori neuroendocrini è diagnosticato in fase avanzata. Ma la sopravvivenza a 5 anni, nel nostro Paese, è elevata, superiore al 60%. Proprio perché, negli ultimi anni, le armi a disposizione contro i tumori neuroendocrini hanno permesso di realizzare passi in avanti significativi.

“Siamo di fronte a patologie molto diverse fra loro, che richiedono un approccio personalizzato e una gestione integrata da parte di vari specialisti – sottolinea il dott. Carnaghi -. Mancano studi che indichino quale sia la migliore sequenza terapeutica da seguire. Pertanto è difficile capire quale sia la strategia più efficace da adottare in prima istanza. Servono più sperimentazioni in questo senso. La terapia dei tumori neuroendocrini è cambiata in maniera radicale negli ultimi anni, perché nuovi approcci terapeutici hanno determinato la revisione degli standard di cura”. “Se la patologia è localizzata, trova una risposta nella chirurgia, che porta a guarigione alte percentuali di pazienti – continua il prof. Falconi -. La malattia metastatica può giovarsi della chirurgia solo in rari casi. In questa fase, entrano in campo le terapie farmacologiche. Dalla chemioterapia, che è tuttavia efficace solo in alcune forme, agli analoghi della somatostatina, ai farmaci ‘bersaglio’, fino alle strategie locoregionali come la embolizzazione o la termoablazione epatica. Recentemente è stata inoltre approvata anche in Italia la terapia radiorecettoriale, che, attraverso la somministrazione di un radiofarmaco, è in grado di veicolare una ‘energia distruttiva’ mirata in modo specifico sulle cellule tumorali”.

Un’indagine ha approfondito il vissuto dei pazienti: qualità del sonno e intimità di coppia sono gli aspetti più colpiti dalla patologia. Per circa un terzo l’impatto sulla professione è significativo e 4 su 10 sono stati costretti a lasciare il lavoro (per il malessere fisico o psicologico e per il tempo richiesto dalle terapie). “Per l’80% il percorso che ha condotto alla diagnosi è stato difficile (molto per il 53% e abbastanza per il 27%) – spiega Barbara Picutti, consigliere Net Italy (Associazione Italiana Pazienti con tumori neuroendocrini) -. Dai risultati dell’indagine, soltanto la metà si sente adeguatamente informata rispetto alle diverse dimensioni della patologia, dalle aspettative di vita ai servizi a disposizione dei malati, fino al decorso e possibili conseguenze del tumore. E solo il 50% si sente completamente soddisfatto del rapporto con il medico. Per il 73%, le principali iniziative da sviluppare riguardano proprio la formazione di team di specialisti. Le lacune nell’assistenza possono pregiudicare l’esito delle cure, riducendo le opportunità di trattamento e la gestione efficace della malattia. Le associazioni dei pazienti, che l’indagine evidenzia come uno dei canali principali di informazione per i malati di tumore neuroendocrino, devono assumere un ruolo chiave nell’affrontare questi problemi in stretta collaborazione con i clinici e con le Istituzioni, collaborando per potenziare e migliorare l’accesso alle informazioni, all’assistenza e alla ricerca cui tutti i malati hanno diritto”.

“Le manifestazioni cliniche della sindrome da carcinoide (in particolare diarrea e problemi cardiaci) rappresentano l’aspetto più grave della malattia, con implicazioni di tipo prognostico – afferma il dott. Carnaghi -. Trattamenti farmacologici permettono una netta riduzione dei sintomi nell’80% dei casi. Non solo. Nella maggioranza dei pazienti, questi trattamenti consentono di rallentare l’evoluzione della malattia in modo significativo”.

“I tumori neuroendocrini possono rimanere silenti per anni, crescono lentamente spesso senza causare sintomi specifici – conclude il prof. Falconi -. Difficilmente un clinico può affrontare da solo e con perizia questa patologia rara e complessa. Serve un’alleanza tra le diverse figure professionali competenti. Inoltre, è necessario concentrare risorse e conoscenze in centri di riferimento e condividere il più possibile le esperienze acquisite. Uno degli obiettivi di Itanet è indicare sia ai clinici che ai pazienti un percorso di cura chiaro e definito, promuovendo la diffusione delle nuove conoscenze e il loro trasferimento nella pratica clinica. I centri di riferimento devono rappresentare un servizio per il paziente, il territorio e la comunità medica. La rarità della patologia e la richiesta di competenze specifiche devono fare sì che non solo lo specialista ma anche il medico di famiglia, che per primo visita il paziente, sappiano indirizzarlo al centro di riferimento più vicino. Inoltre vanno promossi progetti di ricerca nazionali e internazionali, per individuare terapie sempre più basate sull’evidenza”.