Epatite C: chi si droga rischia e la diffonde


Chi si droga rischia e diffonde epatite C. A Milano il progetto “Hcv: Be Fast, Be Different”: a confronto epatologi, infettivologi e internisti

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L’Italia è tra i Paesi europei con la più elevata prevalenza di infezione da epatite C, una malattia oggi curabile grazie a farmaci sempre più efficaci, ma che trova diffusione in alcuni soggetti fragili. Tra questi, in particolare, i tossicodipendenti che, poco inclini a sottoporsi a test precoci capaci di individuare e stroncare la malattia nella sue prime fasi, diventando spesso veicoli di trasmissione del virus. Si calcola che in tre anni, un tossicodipendente affetto da epatite C (Hcv) infetti altre 20 persone. Con il rischio che il virus continui a circolare. Da qui l’importanza di campagne di sensibilizzazione per informare i consumatori di stupefacenti che possono sottoporsi a screening e curarsi in tempi rapidi.

Oggi una terapia anti-Hcv dura infatti da otto a 12 settimane, senza ospedalizzazione completa né effetti collaterali, ed elimina definitivamente il virus dell’epatite C, permettendo ai pazienti una qualità di vita rinnovata. Temi di cui si è parlato a Milano, riferisce la Dire (www.dire.it) nella terza tappa del progetto ‘Hcv: Be Fast, Be Different‘, convegno, organizzato da AbbVie al Nhow Hotel di via Tortona.

L’iniziativa fa seguito agli incontri tenuti a Matera e a Roma in primavera, e precede l’ultimo previsto a Torino il 10 ottobre prossimo. Un momento di confronto tra specialisti di vari settori, fra cui epatologi, infettivologi, internisti, al fine di identificare percorsi clinici condivisi per individuare i pazienti che non sanno di essere portatori di Hcv o non si sono ancora sottoposti alla terapia gratuita per eliminarla.

Si stima che in Italia esistano ancora circa tra i 250.000 e i 450.000 pazienti con infezione da epatite C non diagnosticata e circa 170.000 pazienti che nonostante la diagnosi di epatite C sia nota, non sono stati ancora inviati al trattamento’, spiega Pierluigi Toniutto, direttore dell’Unità di Epatologia e trapianto di fegato presso l’Università di Udine. ‘È il cosiddetto ‘sommerso’- sottolinea l’esperto- su cui si devono concentrare le azioni per individuare i pazienti da mettere in cura’. Tra questi rientrano anche gli omosessuali maschi e i detenuti ‘perché la trasmissioni del virus è prevalentemente ematica e per via sessuale’. Per l’esperto i tossicodipendenti ‘dovrebbero essere sistematicamente sottoposti a screening per la ricerca dell’infezione da Hcv all’interno del Serd (Servizi per le dipendenze patologiche) e lo stesso dovrebbe avvenire per i carcerati’. Questo oggi non avviene, se non in percentuale molto bassa, continua l’epatologo, che ricorda come questi soggetti oltre a non curarsi, ‘possono contagiare altri strati della popolazione’. Oramai da mesi, sono stati introdotti e resi disponibili in Italia per tutti i pazienti i nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (Daa) specifici per il trattamento dell’infezione cronica Hcv.

Dall’introduzione dei nuovi farmaci, sono stati sottoposti a trattamento antivirale circa 200.000 pazienti nel Paese, con un ritmo di circa 35.000 pazienti per anno. ‘Questi farmaci hanno rivoluzionato l’approccio nei confronti del trattamento della patologia, consentendo di ottenerne la guarigione in una percentuale di oltre il 95% dei pazienti trattati, ma il problema è il ‘sommerso”, dice ancora Toniutto evidenziando che si ipotizza ammontino al 65% i pazienti ai quali non è ancora stato diagnosticato il virus dell’Hcv. Soggetti che gravitano attorno agli ambulatori dei medici di generale, di cui ‘l’attenzione verso questo tipo di pazienti deve quindi essere molto elevata’.

Considerando come la piaga della droga coinvolga, soprattutto nelle grandi città, sempre più giovani, anche minori, con un aumento dell’uso delle siringhe, gli esperti sollecitano campagne informative forti, non solo per l’Hiv (Aids), ma anche per l’epatite C, a partire dai Serd. Ne parla Cristina Rossi, infettivologa dell’Ospedale Ca’ Foncello di Treviso, secondo la quale ‘il Serd ha un ruolo centrale nei controlli sierologici, nella scelta dei candidati alle terapie e nella gestione della terapia, oltre che nella prima fase di identificazione dei pazienti Hcv positivi, anche con l’utilizzo dei test rapidi’.

Altrettanto importante, precisa Rossi, ‘è il counselling per motivare il paziente al trattamento, spiegando che le terapie di oggi non hanno effetti collaterali e sono risolutive, facilitando così il contatto con lo specialista epatologo o infettivologo’ capace di avviare la cura. A fronte della centrale collaborazione tra Serd e centri epatologici, l’infettivologa osserva che la Regione Veneto nella quale opera, ‘ha già avviato dei programmi che servono per incrementare questo rapporto fra i Serd e gli specialisti epatologi e infettivologi’, ma, aggiunge, ‘le istituzioni devono aumentare le risorse umane all’interno dei Serd, creare progetti, come l’ipotesi di fornire ai Serd dei test rapidi, a mio avviso, un’ottima soluzione per arrivare alla diagnosi di questi pazienti, e, più in generale supportare sul fronte istituzionale questo percorso’.

In Italia ci sono circa 150.000 tossicodipendenti che si rivolgono abitualmente ai Servizi per le dipendenze (Serd). Pur non conoscendo la prevalenza esatta, è possibile affermare che circa il 40% di questa popolazione sia positiva all’epatite C, quantificabile dunque in circa 50-60.000 persone. Ci sono poi da aggiungere altri soggetti, stimati in circa 300.000 persone, che fanno uso frequente di droga ma che non afferiscono abitualmente ai Serd. Raggiungere anche questa categoria di persone è fondamentale.

Citando la Relazione annuale al Parlamento nel 2017 sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, Raffaele Bruno, professore associato di Malattie Infettive dell’Università di Pavia, riferisce che nel 2016 i Serd abbiano avuto in carico 143.271 assistiti, e 28.197 (20,5%) sono stati testati per Hcv di cui 12.380 (43.9%) soggetti risultati positivi. Bruno rileva un altro dato, ‘quello relativo all’incidenza di nuovi casi di infezione da Hcv nei soggetti con consumo iniettivo -endovena di sostanze, stimato essere di 2.4 casi (95% CI 0.9-6.1) per 100 soggetti-anno. Tali dati possono assumere dimensioni ancora più rilevanti se consideriamo anche i soggetti con consumo di sostanze per via endovenosa non seguiti presso alcun centro’.

Una prevenzione efficace contro l’epatite C si traduce, fra l’altro, anche in vantaggio per il Sistema sanitario nazionale che può abbattere i costi, che altrimenti gravitano: la degenerazione della malattia può infatti portare alla cirrosi epatica fino al trapianto di fegato. Lo spiega Davide Croce, direttore del centro di ricerca sull’economia e management in sanità e nel sociale (Crems) dell’Università Carlo Cattaneo-Liuc di Castellanza.

‘I costi che noi sosteniamo per la cura sono oggi molto inferiori ai vantaggi che otteniamo dalla cura stessa’ spiega Croce, mentre puntando sulla prevenzione si può ‘ad esempio, evitare trapianti di fegato che sono molto costosi per il Sistema sanitario nazionale, e contemporaneamente sono molto invasivi per il paziente’. Investire in prevenzione ‘significa quindi avere benefici sociali, prima di tutto, per i pazienti, e economici’. Si calcola che le perdite a carico del sistema sanitario nazionale per una cura non preventiva dell’epatite C corrispondano a ‘sei miliardi di euro per i prossimi 400.000 pazienti che sono ancora non individuati all’interno del servizio nazionale’. Si tratta ‘di un dato importante che ci deve spingere a cercare le persone che sono inconsapevoli di portare il virus dell’epatite c‘. In questo quadro le Regioni applicano diverse pratiche nel contrasto all’Hcv: le più attive in valore assoluto in termini di persone, ‘sono Lombardia, Campania e Sicilia’. Ma, conclude Croce, ‘è il Veneto a essere particolarmente attento sul fronte dell’individuazione dei nuovi pazienti non ancora diagnosticati con azioni mirate’, che, a detta degli esperti, converrebbero a tutte le Regioni.