Tumori: troppi studi clinici escludono qualità della vita


Una revisione di 446 sperimentazioni pubblicata su “Annals of Oncology” ha evidenziato che circa la metà dei trial non considera la qualità della vita delle persone colpite da tumori

I tumori genito-urinari rappresentano il 20% di tutte le neoplasie registrate nel nostro Paese ogni anno. L’approccio deve essere integrato e prevedere il continuo confronto tra i vari specialisti

La qualità di vita delle persone colpite da tumori è ancora trascurata. I clinici affrontano raramente questo aspetto e pochi pazienti ne parlano con il medico. Non solo. Nel 47% degli studi la qualità di vita è esclusa dai criteri per valutare l’efficacia di un trattamento. Il risultato emerge da una revisione sistematica pubblicata su Annals of Oncology (che ha considerato 446 sperimentazioni su 11 riviste scientifiche internazionali tra il 2012 e il 2016).

Spossatezza, nervosismo, difficoltà ad addormentarsi, lieve dissenteria, mancanza di appetito, gonfiore e secchezza vaginale sono piccoli fastidi molto frequenti fra i pazienti oncologici, in grado di peggiorare la qualità di vita.

Per migliorare la consapevolezza di tutte le figure coinvolte nel percorso di cura, Fondazione AIOM e AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) hanno realizzato il progetto nazionale “I nuovi bisogni del paziente oncologico e la sua qualità di vita”, presentato al XX Congresso nazionale della Società scientifica in corso a Roma.

“Nel 2018, sono quasi 3 milioni e quattrocentomila gli italiani che vivono dopo una diagnosi di tumori, pari al 6% dell’intera popolazione – spiega Stefania Gori, Presidente nazionale AIOM e Direttore dipartimento oncologico, IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria-Negrar -. È un vero e proprio ‘esercito’ di persone che presenta nuove esigenze a cui il sistema deve saper rispondere. Disturbi che, all’apparenza, possono sembrare banali non sono tali per chi li vive in prima persona. La loro sottovalutazione può compromettere l’adesione ai trattamenti e l’efficacia delle cure, come evidenziato da uno studio presentato recentemente al Congresso europeo di Oncologia Medica, che ha preso in considerazione 1.799 donne in premenopausa affette da carcinoma della mammella ai primi stadi e sottoposte a terapia ormonale. I ricercatori hanno indagato l’aderenza alla terapia analizzando i livelli del farmaco nel sangue delle pazienti. È emerso che una donna su sei non segue la terapia ormonale come indicato, aumentando così il rischio di sviluppare metastasi e recidive. Vanno individuati i fattori coinvolti nella non aderenza, tra cui la comparsa di effetti collaterali che vanno dalla secchezza vaginale alle vampate fino ai dolori articolari e muscolari”.

“Con questo progetto – sottolinea Fabrizio Nicolis, presidente di Fondazione AIOM -, vogliamo consigliare un patto fra ospedale e territorio per mettere in rete i professionisti che seguono il paziente nell’intero percorso di cura e che possono ‘intercettare’ subito questi bisogni: oncologi, medici di famiglia e farmacisti. In diverse neoplasie la sopravvivenza aumenta in modo significativo e gli effetti collaterali diminuiscono e si modificano. Basta pensare che la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi raggiunge il 91% nel tumore della prostata e l’87% nella mammella”.

“Questa nuova realtà impone la necessità di indagare, analizzare e comprendere i nuovi bisogni dei pazienti in modo che possa migliorare la loro qualità di vita. In particolare, vanno poste le condizioni perché da un lato il paziente, i suoi familiari e i caregiver esprimano i nuovi bisogni e, dall’altro, gli specialisti e le varie figure professionali coinvolte interagiscano con la persona colpita dal cancro attrezzandosi al meglio. Il rapporto oncologo/paziente infatti non è più sufficiente: nella gestione della filiera quotidiana della persona colpita dalla malattia possono e devono intervenire anche altre figure, quali il medico di famiglia e il farmacista”.

Il progetto è iniziato lo scorso febbraio con la realizzazione di quattro sondaggi condotti per scattare una fotografia sulla consapevolezza sul tema delle figure coinvolte (pazienti, oncologi, medici di famiglia e farmacisti): solo il 57% dei pazienti riferisce al medico i piccoli disturbi legati alla malattia o alle terapie, contro il 98% che affronta con l’oncologo gli effetti collaterali ritenuti rilevanti. Il 39% degli oncologi evidenzia la sottovalutazione da parte degli stessi clinici di questi disturbi, che per il 52% possono influenzare in senso negativo l’adesione ai trattamenti.

“Il 70% delle donne con tumore del seno va incontro ad atrofia vaginale in seguito alle terapie ormonali utilizzate per combattere la malattia – afferma la Presidente Gori -. E il problema interessa tutte le pazienti operate per cancro dell’ovaio, proprio a causa della rimozione dell’organo. Un disturbo che può avere un impatto negativo sulla qualità di vita: i rapporti sessuali diventano impossibili e le difficoltà nella minzione spesso compromettono le relazioni sociali. A oggi, però, non abbiamo dati relativi alle problematiche sessuali che si registrano tra i pazienti oncologici italiani. Nel mondo anglosassone, invece, questi aspetti sono già stati analizzati. Uno studio australiano su oltre 1.000 donne ha evidenziato come più del 70% delle pazienti con carcinoma della mammella abbia presentato problemi sessuali nei due anni successivi alla diagnosi: la maggior parte degli effetti collaterali sessuali viene tuttavia sotto-riconosciuta e sotto-riportata dai medici. Un altro studio, realizzato nel mondo anglosassone, ha dimostrato che solo il 25% dei medici stila una storia sessuale del paziente: oltre il 50% delle persone con problemi sessuali non chiede aiuto ai medici e, tra questi, solo la metà trova assistenza adeguata. Da qui l’importanza di questo progetto, che per la prima volta inaugura un percorso di attenzione nei confronti dei nuovi bisogni del paziente oncologico”.

Nel sondaggio realizzato fra i medici di medicina generale, per l’82% dei clinici è aumentata l’attenzione delle persone colpite da tumori nei confronti dei piccoli disturbi.

“Spesso i pazienti li percepiscono come un possibile segnale del ritorno del tumore e ne sono molto spaventati – spiega Claudio Cricelli, presidente SIMG (Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie) –. Inoltre la comunicazione con la medicina del territorio si interrompe durante il percorso oncologico in ospedale, per riprendere solo dopo la fase acuta della malattia. La chiave di volta è costituita da una maggiore collaborazione fra oncologi e medici di famiglia, che questo progetto si propone di attuare. Va inoltre affrontata la questione dell’informazione sulle nuove molecole anticancro e sugli eventuali effetti collaterali a breve, medio e lungo termine. I medici di famiglia non sempre li conoscono, perché non possono prescrivere i nuovi farmaci. Se i medici di medicina generale non conoscono le terapie praticate, gli effetti collaterali, gli esami da eseguire, la diagnostica per immagini e la prognosi, non si può pretendere che effettuino la presa in carico di questi pazienti. Un’esperienza interessante è quella promossa in Toscana: è stato creato un tavolo di lavoro con l’Istituto Toscano Tumori sul follow up del paziente a 5 e 10 anni dalla diagnosi. Stiamo definendo un protocollo, un documento dettagliato con cui il centro specialistico informa il medico di famiglia sulle terapie somministrate nei 10 anni precedenti e sugli eventuali effetti collaterali”.

“La creazione di un percorso strutturato fra oncologi, medici di famiglia e farmacisti può determinare le condizioni per una reale reintegrazione dei cittadini colpiti dal cancro nella società e nel mondo del lavoro – conclude Paolo Vintani, vicepresidente Federfarma Milano -. Nel percorso formativo dei farmacisti dovrebbe rientrare la definizione dei piccoli disturbi, anche per arginare la deriva rappresentata dal frequente ricorso da parte dei malati a metodi privi di basi scientifiche. In base a un’indagine condotta per l’Istituto dei Tumori di Milano, è emerso che il 70% delle persone colpite da cancro che non rientra in protocolli standard rigorosi si rivolge a vie diverse da quelle proprie della scienza. In questi casi, diventano essenziali la medicina del territorio e le farmacie, proprio per indirizzare i pazienti nella giusta direzione”.