Alzheimer, quando la solitudine uccide


Perché tanti anziani disperati danno la morte al coniuge malato? Al congresso sui Centri Diurni Alzheimer parla lo psicogeriatra Marco Trabucchi. Che propone: “Affidare tutta l’assistenza a volontariato e associazionismo”

Perché tanti anziani disperati danno la morte al coniuge malato? Al congresso sui Centri Diurni Alzheimer parla lo psicogeriatra Marco Trabucchi. Che propone: affidare tutta l'’assistenza a volontariato e associazionismo

Professor Marco Trabucchi, il presidente Mattarella ha da poco graziato un signore ottantenne condannato per aver ucciso la moglie travolta dall’Alzheimer. Lei cosa ne pensa?

“Penso che il presidente abbia agito bene. Era un delitto per amore, uno dei tanti casi penosi prodotti dalla malattia e dalla solitudine che imprigiona anche il caregiver. E’ la condizione disperata in cui vivono decine di migliaia di pazienti con le loro famiglie”.

Trabucchi è il più noto degli psicogeriatri italiani, presiede da anni l’associazione scientifica della categoria, è tra i fondatori degli Alzheimer Café e intervenendo oggi a Montecatini Terme in chiusura del 9° congresso nazionale sui Centri diurni Alzheimer ha presentato una dolente relazione sulla solitudine nella demenza, quel flagello privato e sociale che l’Italia fatica a fronteggiare. Beata solitudo, sola beatitudo, recita un brocardo latino. Purtroppo la solitudine del demente è tutt’altro che beata. Né è la magica, centenaria avventura letteraria di Gabriel Garcia Marquez. Vero professore?

“Già. La solitudine nella demenza è una prigione inesorabile di dolore e muta disperazione. Inizia coi primi sintomi quando la persona, in un deserto umano e culturale, non sa che fare. a chi rivolgersi, né sa interpretare i segni della malattia. Così affonda nell’angoscia mentre la solitudine si allarga alla famiglia, carica di ansie perché non trova ascolto né comprensione”.

In genere uno dei familiari si prende cura del malato. Chi può ingaggia una badante. Dunque perché solitudine quando c’è almeno un caregiver?

“Perché sono tutti inadeguati ad accompagnare questa fase: per ignoranza, vergogna, paura o perché non si sa con chi relazionarsi. L’avanzare della malattia cattura nella solitudine anche il caregiver: non riesce a comunicare col malato, né a dialogare con parenti, conoscenti, vicini. E’ isolato anche per ogni problema importante: se e quando iniziare l’alimentazione artificiale, se decidere la sospensione delle cure o il ricovero in un’istituzione o in ospedale. Il caregiver ignora la malattia, quindi non sa neanche rapportarsi col personale medico”.

Le cronache riferiscono spesso, appunto, di anziani che uccidono il coniuge vittima dell’Alzheimer, un segno tragico del diffondersi della malattia nella popolazione che invecchia.

“In non poche circostanze la solitudine diventa in effetti drammatica. Può trasformare in omicida il caregiver, che poi di solito si suicida. E’ la più forte dimostrazione del fallimento della comunità nell’accompagnare chi soffre. E purtroppo non sempre la comunità riesce a interpretare la propria inadeguatezza. Si limita a risposte banali, senza interrogarsi sulle proprie assenze”.

Per il caregiver uccidere il paziente è una liberazione, la fine di un impegno spossante, anche se si tratta del compagno/a di una vita. Per entrambi è una via d’uscita dalla solitudine.

“Non è così. Chi muore smette di soffrire, certo. Ma per il caregiver la liberazione è solo apparente. La sua solitudine continua anche dopo l’uscita di scena del proprio caro, perché in genere il dolore della perdita non viene compreso nella sua drammatica pesantezza”.

Cosa possiamo fare come servizi sanitari per ridurre l’effetto devastante della solitudine ?

“Dopo la diagnosi i CDCD (Centri per i disturbi cognitivi e demenze) dovrebbero impostare progetti di continuità assistenziale rivolti a malato, famiglia e caregiver coinvolgendo l’intera equipe. Purtroppo questi progetti articolati sono ancora rari. Chi programma pensa solo a interventi puntiformi, ma trascura di accompagnare malato e caregiver nei lunghi anni della malattia. Forse dovremmo interrogarci se tutto debba dipendere dai servizi formali e se invece non sarebbe meglio pensare a interventi di supporto organizzati dal volontariato nelle sue varie forme”.